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QUELLA ILLUSIONE AUTORITARIA DI RIEDUCARE LE PERSONE CHIUDENDOLE IN UNA CELLA

22 febbraio 2025:

Diego Mazzola su l’Unità del 22 febbraio 2025

Continuo a sognare a occhi aperti che un bel giorno vedremo crollare il Sistema Penale sotto la valanga dei suoi fallimenti e contraddizioni e che siano rasi al suolo tutti gli istituti carcerari penali di questo mondo. Già Aldo Moro credette al superamento del Sistema Penale, che da sempre si è basato sulla sofferenza procurata a chi viene recluso. In pratica, stiamo parlando di tortura, perché il carcere è tortura. Attenzione, dunque, quando si usano termini come “penitenziario”, “esecuzione della pena”, perché “pena” è solo ciò che ci muove quando vediamo il dolore negli occhi di animali e di persone sofferenti: il resto, se procurato, è solo tortura.
Ovunque nel mondo la pratica della tortura è stata ridotta – molto lentamente – nel tempo e infinite sono state, e sono ancora, le vittime di quella barbarie. L’associazione, alla quale da anni sono iscritto, non dice: Caino sia toccato in modo democratico o non sia ucciso o sia fatto soffrire in modo discreto e accettabile. Dice: Nessuno tocchi Caino!
Ciò che è messo in discussione è lo stesso diritto di far soffrire gli altri, anche quelli che ci sembra ne abbiano motivo.
Filippo Turati, alla Camera dei deputati, il 18 marzo del 1904, in un discorso memorabile che poi fu pubblicato in un opuscolo dal titolo “Il cimitero dei vivi”, affermava: «Noi crediamo di aver abolito la tortura, e i nostri reclusori sono essi stessi un sistema di tortura, la più raffinata; noi ci vantiamo di aver cancellato la pena di morte dal codice penale comune, e la pena di morte che ammanniscono goccia a goccia le nostre galere è meno pietosa di quella che era data per mano dal carnefice».
La Storia ci insegna quanto sia costato, e costi, l’aver lasciato che del “fare giustizia” si occupi la categoria dei magistrati, una volta gli Inquisitori, oggi gli Inquirenti. Si sa dell’orrore dei tribunali e dei luoghi di detenzione, della “naturale” capacità di errore nel giudizio, di catene e di suicidi, di quella che Foucault prima e Alain Brossat poi hanno definito la “società carceraria”.
Se vogliamo che un giorno le cose cambino, sarebbe logico invitare i cittadini, partendo dai ragazzi in età scolare, a riflettere sul perché la società sceglie di diventare un modello di crudeltà e di vendetta. Consapevoli noi tutti della pericolosità di alcuni nostri concittadini e di noi stessi, se provocati o coinvolti, sarebbe una matura scelta politica se decidessimo di non accettare che – nei confronti di essi come di noi stessi – sia usata la violenza per il reinserimento nella società. Sappiamo quanto sia importante tenere separate dalle altre le persone altamente pericolose.
Ma dovrebbe essere solo per il tempo necessario alla loro presa di coscienza. Non è sulla sofferenza dei reclusi che si basa la prospettiva del reinserimento e della sicurezza sociale.
Occorre far leva sul senso della dignità personale, quella che viene costantemente negata dalla carcerazione. È bene sempre ricordare Thomas Mathiesen che ha trascorso la sua vita a ripetere che «la ‘prigionizzazione’ è l’opposto stesso della riabilitazione, ed è l’ostacolo maggiore sulla strada del reinserimento».
Perché ignorare Papa Francesco che implora l’amnistia nel mezzo della celebrazione del Giubileo? Forse perché si teme sia ridiscussa la natura stessa del Sistema Penale e la repressione come metodo nel rapporto tra il Potere e il cittadino? Ciò che dovrebbe sconvolgere tutti è proprio quella “Teoria della prevenzione generale”, su cui si fonda il Sistema Penale e su cui si articola il “modello retributivo”, ovvero l’idea di impedire, punendo l’autore di un reato, che altri intraprendano azioni criminose. Nella stupidità di quest’idea è andato a finire il cosiddetto “senso delle cose”.
Pensare che si possa processare e minacciare l’ergastolo per una studentessa che ha ucciso due sue creature seppellendole nel giardino di casa, significa credere che la malattia mentale sia volontaria e consapevole.
Il problema del carcere e l’idea di punire sono tutt’uno con la violenza, come pratica personale, sociale e politica. Questo è il punto: il carcere è il luogo in cui viene legittimato il metodo della violenza politica ed esercitata la vendetta sociale. Tocca a noi di indicare la via e le ragioni del confronto nonviolento e “farne bandiera”. Tacere non è ammesso nel confronto in corso tra Stato di Diritto e Ragion di Stato, tra democrazia e tentazione autoritaria.
Gli abolizionisti non sopportano che la violenza sia praticata come metodo (ri)educativo e regolamento dei conti e dei rapporti sociali. Chi pensasse di essere in grado di giudicare e ritenere di essere nel giusto nel far soffrire un proprio simile per ciò che si crede sia degno di punizione, faccia lo sforzo di capire che non esiste sofferenza che, inflitta ad altri, possa essere rivendicata come espressione di un libero pensiero o affermazione di coscienza individuale, tantomeno come ragione e diritto di uno Stato democratico.

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