A FURIA DI OCCHIO PER OCCHIO IL MONDO DIVENTERÀ CIECO
26 febbraio 2022: Elisabetta Zamparutti su Il Riformista del 25 febbraio 2022 Il centro storico di Ahmedabad, capitale culturale del Gujarat, uno degli Stati dell’India, è stato riconosciuto nel 2017 come patrimonio dell’umanità. Nella breve descrizione che si trova nel sito web dell’UNESCO si legge che la sua architettura, fatta di processi di stratificazione, memorie e tecnologie, miti e simboli, integra dimensioni sociali e spirituali ed è “un eccezionale e unico esempio di convivenza multiculturale”. Il prestigioso riconoscimento pare voler preservare, con le composizioni lignee, anche l’universo di relazioni sociali che nel tempo lo hanno modellato tenuto conto che oggi è sottoposto alla pressione di uno sviluppo speculativo unito a un progetto di amnesia. Mi riferisco allo sradicamento delle memorie culturali, allo sgretolamento di relazioni di vita accettabili in una città in fortissima crescita. In bilico tra la vita e la morte, il centro storico di Ahmedabad, diventa metafora del come si può dire e fare giustizia. L’India è una repubblica democratica, dove la Corte Suprema contiene l’uso della pena di morte. Con la storica sentenza “Bachan Singh contro lo Stato del Punjab” del 9 maggio 1980 ha sostenuto che la pena capitale può essere applicata solo se il caso rientra tra quelli “più rari tra i rari”. Entro questi limiti, condanne a morte ed esecuzioni si continuano a registrare. La settimana scorsa si è saputo che un tribunale speciale del Gujarat ha condannato a morte ben 38 persone e all’ergastolo altre 11, mentre 28 sono andate assolte. Se la sentenza verrà confermata in appello passerà alla storia per il numero di condanne capitali pronunciate in un sol colpo. Dal 2010, l’India ha impiccato sette persone in quattro esecuzioni distinte: Ajmal Kasab, il 21 novembre del 2012 per l’attacco terroristico del 2008 a Mumbai; Afzal Guru, il 9 febbraio del 2013 per l’attacco terroristico al Parlamento del 2001; Yakub Memon il 30 luglio 2015 anche lui per gli attacchi dinamitardi di Bombay nel 1993; infine, i quattro stupratori del caso Nirbhaya impiccati insieme nel carcere di Tihar a Delhi il 20 marzo 2020. Le ultime 38 condanne a morte sono state l’esito di un maxi processo ultra decennale che si è svolto a porte chiuse, in un’aula allestita nel carcere di Sabarmati, durante il quale sono stati uditi oltre mille testimoni su quanto accadde ad Ahmedabad il 26 luglio del 2008. Nell’arco di un’ora 21 ordigni, nascosti in biciclette e altri oggetti di uso quotidiano, vennero fatti esplodere nel centro della città in due serie di esplosioni successive. La prima era avvenuta nei pressi di un frequentato centro commerciale e la seconda, circa 20 minuti dopo, nei pressi dell’ospedale in cui erano stati portati alcuni dei feriti. Furono 56 le vittime, 200 i feriti. L’attentato, l’ultimo atto di una catena di violenze, è stato rivendicato dal gruppo terroristico Indian Mujahideen (IM), una fazione dello Students Islamic Movement of India (SIMI), già dichiarato fuorilegge, che aveva agito per vendicare i massacri religiosi del 2002 a Godhra, altra città del Gujarat. Nelle violenze di Godhra, scoppiate per vendicare l’incendio di un treno in cui avevano perso la vita 59 indù, vennero inseguiti, violentati, bruciati e massacrati almeno mille musulmani. Ora, mettendo a confronto il numero delle vittime dei diversi attacchi, non v’è pareggiamento tra i piatti della bilancia delle vendette religiose. Neanche la vendetta di stato, la pena di morte, potrebbe mai ristabilire l’equilibrio nella bilancia. L’aritmetica della giustizia retributiva produrrebbe effetti umanamente insostenibili perché – come diceva il Mahatma Gandhi – con l’occhio per occhio alla fine il mondo sarebbe diventato cieco. Vedremo se la Corte Suprema indiana confermerà o meno le 38 condanne a morte, se il caso rientra o meno tra “i più rari dei rari”. Di fronte ai conflitti indiani che non sono pochi, anche in rapporto al livello di povertà e ai problemi legati alla convivenza tra religioni non sempre tolleranti, la risoluzione umanamente sostenibile è ben rappresentata nella storia e architettura del Centro Storico di Ahmedabad che sono lì a insegnare – insieme a Ghandi che da questa città iniziò la sua “marcia del sale” – che l’equilibrio, l’armonia, l’ordine vivono e durano nel tempo solo se basati sulla nonviolenza, l’integrazione, la cooperazione.
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