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PAROLE LIBERATE: OLTRE IL MURO DEL CARCERE

31 maggio 2025:

Questo articolo è anche l’annuncio di due eventi che si svolgeranno, il primo, il 5 giugno nel carcere femminile di Taranto, il secondo, il 6 giugno nel carcere minorile di Bari, dove verrà presentato il progetto “Parole liberate: oltre il muro del carcere” promosso dal giornalista Michele De Lucia, dall’attore Riccardo Monopoli e dall’autore Duccio Parodi. Si tratta di un Premio riservato alle persone detenute alle quali viene proposto di essere co-autori di una canzone: la lirica vincitrice è poi affidata a un artista già affermato, affinché la metta in musica e la interpreti.

Duccio Parodi su l’Unità del 31 maggio 2025

Il 31 dicembre 2024 Elena Scaini ha liberato oltre il muro del carcere le sue parole, e il 3 marzo 2025 si è tolta la vita. Le persone detenute scrivono per molti motivi e un unico bisogno: trovare ascolto. Elena non aveva più motivi, non aveva più bisogno, nemmeno di sapere se avesse “vinto”. Restano le sue tre poesie, le parole che ci ha affidato.
A qualcuno verrà in mente Carlo Levi e il suo “le parole sono pietre” e penserà che quelle di Elena questo siano, pietre, e come sempre nessuno ricorderà che, prima delle parole, prima delle pietre, sono le lacrime. E mentre il nuovo pontefice invita a “disarmare le parole” e benvenute siano queste, appunto, parole, sarebbe utile che seguissero le istruzioni su come farlo, questo disarmo, visto che le esortazioni alla tolleranza e le marce per la pace nel mondo non sono servite a granché.
E se nei dieci anni trascorsi seminando bandi riservati ai detenuti abbiamo raccolto migliaia di parole, e contato i nomi di chi, come Elena, ha lanciato il proprio corpo disperato un po’ più in là dell’ultimo portone blindato lasciando a noi le istanze e i protocolli e le prassi pallide ma feroci che tanto ci assomigliano, abbiamo anche imparato che le parole da disarmare non sono quelle che vengono da dentro le mura, ma quelle di fuori, quelle della società civile che esulta in tribunale quando il giudice legge la sentenza più gradita, o che si sente defraudata quando la pena è inferiore al massimo e non soddisfa la sua esigenza di vendetta.
Certo sarebbe ingiusto stigmatizzare chi prova il desiderio di infliggere un castigo a chi gli ha causato un dolore o una perdita, e sarebbe ridicolo oltre che ingiusto pensare di stravolgere un codice – quello penale, appunto – che di questo si occupa. E quanto “fare giustizia” fosse necessario lo aveva già compreso Hammurabi quasi quattromila anni fa; le sue leggi erano piuttosto semplici: occhio per occhio, dente per dente. Questo simpatico motto rimase in vita fino a quando Mosè con le stesse parole introdusse un diverso concetto, quello della riparazione. Il senso del suo “occhio per occhio” infatti non era “te ne cavo uno a te se tu me ne cavi uno a me” bensì “ti porto in tribunale e me lo paghi, l’occhio”, e seguiva un articolato tariffario. Questa legge appare severa perché infarcita di condanne a morte, ma si tratta di una severità pedagogica ché arrivare a sentenza era molto complicato, dato che se il voto degli anziani era unanime (segno che l'imputato non aveva nemmeno un amico), non si poteva condannare e in ogni caso era necessario almeno un testimone oculare, requisito difficile da soddisfare.
Dopo Mosè si tornò alle esecuzioni facili e alle torture e si inventarono le prigioni, e ci vollero due millenni per arrivare a Beccaria; e a quel punto preferimmo Hammurabi. È proprio qui, nell’ambito della giustizia e della pena che una distorsione del significato ha trasformato le parole in armi: penitenziario per esempio significa confessore, non prigione, e questa torsione del significato diviene tortura del corpo, perché penitenziario non è più la persona che redime, ma il luogo dove la pena si infligge, parola che suggerisce percuoti, scaglia contro. Come “carcere”, dal latino “carcer”, recinto per le greggi, a sua volta derivato dall’aramaico “carcar”, seppellire, tumulare, perché i prigionieri in attesa di giudizio venivano calati nelle cisterne scavate nel terreno (vedi Giovanni Battista). Le parole che derivano da pena, quindi penitenziario, espiazione, pietà, penale, punire e punizione trovano la loro radice nel sanscrito “pu” ovvero purezza, pulizia. Castigare e castigo vengono dal latino “castus” anche qui puro, pulito.
Dis-armate le parole, resta il senso di una redenzione (ri-comprare, ri-ammettere) attraverso gli strumenti della educazione del reo (vedi edificazione, costruzione della persona, non certo la rieducazione modello cinese) e non della distruzione afflittiva come richiede la vendetta. Il sentimento di vendetta, che comprensibilmente abita nelle vittime dei delitti e che ha originato le accezioni oppressive dei termini che indicano le prigioni (dal latino per “prendere con forza”, e anche “edera”) non può essere trasferito nella legge.
Vorrei poter dire a Elena Scaini che ci ha insegnato qualcosa, che qualcosa di lei è rimasto. Non lo so cosa sia rimasto. Forse una canzone.

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