JESUS ALEMÁN: ‘IO, ESULE E BANDITO, LOTTO ANCORA PER IL MIO VENEZUELA’
28 luglio 2024: Questo intervento è stato fatto all’evento del 23 luglio alla Camera dei Deputati promosso da Deborah Bergamini, Vice Presidente di Forza Italia, in vista delle presidenziali del 28 luglio in Venezuela, a cui ha partecipato una delegazione di oppositori politici a Maduro guidata da Rodrigo Diamanti.
Jesus Alemán su L’Unità del 27 luglio 2024
Ho 31 anni e ho un sogno da quando ne avevo 12. Parte della mia famiglia proviene da un immigrato italiano, originario di Ficarazzi in Sicilia. Negli anni 50 si nascose su una nave in partenza senza conoscere la direzione. Fu portato al largo del Venezuela e lì iniziò la sua vita e quella della mia famiglia. Ho iniziato il mio impegno politico come leader studentesco con il sogno di poter vivere in un Venezuela come quello che ha potuto avere la mia famiglia. Questo impegno mi ha portato a essere imprigionato o meglio rapito due volte dal SEBIN (Servicio Bolivariano de Inteligencia Nacional). La prima volta è stata nel marzo 2014. Avevo 20 anni, sono stato picchiato, isolato e torturato perché la pensavo diversamente dalla dittatura di Nicolás Maduro. La seconda volta il 18 gennaio 2018, dopo le proteste del 2017. Due veicoli del SEBIN con diversi agenti con armi lunghe mi hanno intercettato e sono stato rapito. È iniziato un percorso di tortura. Mi hanno coperto il viso con un sacco nero che mi ha tolto il respiro. Mi hanno picchiato, colpito alla testa, stordito. “Ricevi tanti colpi quanti applausi nei comizi”, mi hanno detto. Per farmi “sentire il potere”, mi hanno schiacciato sul pavimento e inflitto scosse elettriche sulla schiena e sul petto. Mi dicevano che la mia vita non valeva niente, che ero solo, che non avrei avuto un salvatore. Mi chiedevano di altri leader politici, non avevo niente da dire se non i miei silenzi che venivano tradotti in colpi, colpi che hanno segnato la mia vita. Dopo le percosse li ho ascoltati godersi il momento. Anche le loro risate erano una tortura. Per il resto del tempo mi tenevano isolato in una piccola stanza con una luce bianca sempre accesa. Mi chiedevo quando sarebbero tornati, a volte preferendo che tornassero, perché da solo mi sentivo impazzire. Solo pensare alla mia famiglia e ai miei compagni mi ha dato la forza di resistere. Una settimana dopo mi hanno portato in tribunale, mi hanno accusato di essere un attivista politico, ma mi hanno anche incriminato per cose che non avevo commesso, falsificando prove e testimonianze e gestendo a piacimento le forze di polizia. È così che opera la dittatura in Venezuela. Mi hanno fatto firmare un numero infinito di documenti che non avrei mai potuto leggere. Alla fine del “processo”, hanno deciso la privazione della libertà e il trasferimento nel carcere comune di Campo Lindo. Lì ho visto come una parola sbagliata può costarti la vita. Perché ciò che è buono o normale per strada in un carcere venezuelano è assolutamente negativo. Ognuno di noi era sottoposto a un PRAN, l’acronimo di “preso rematado, asesino nato”, che è il leader dei criminali in prigione. Vivevamo in condizioni disumane. Ho preso la scabbia e un’infezione da funghi. Potevo vedere anche i tendini delle dita dei piedi, ero limitato nei movimenti, mi è stata negata ogni assistenza medica. A volte di notte lanciavano lacrimogeni nella sezione dove stavo io e mi urlavano “Aspetta Guarimbero”. Così veniva appellato chi protestava contro la dittatura. Era un chiaro messaggio di allerta. Perché la mattina era normale che qualcuno si svegliasse pugnalato. Ho anche vissuto una rivolta. La mia guardia è stata colpita alla testa e io sono caduto sotto di lui. Ho passato più di 20 ore steso a terra in una linea di fuoco. L’unica cosa che ho chiesto a Dio era che non esplodesse una granata vicino a me, perché se fossi morto, avrei chiesto di morire intero. Una mattina, inaspettatamente, mi hanno portato in tribunale e mi hanno fatto firmare misure precauzionali che vietavano di lasciare il Paese. Ho avuto gli arresti domiciliari fino al 27 luglio 2018, quando sono stato espatriato dal mio Paese. Arrivato all’aeroporto di Valencia - Carabobo, alcuni funzionari del SEBIN mi hanno preso per un “controllo antidroga”. Mi hanno portato fuori dall’aeroporto con un’auto di pattuglia. Era l’ultimo avvertimento. Mi avevano già salvato due volte – hanno detto –, la terza non l’avrei potuta raccontare perché mi avrebbero fatto a pezzi. Dopo due ore sono riuscito a imbarcarmi, bandito ed espatriato dal mio Paese. Da allora vivo in esilio, come milioni di venezuelani costretti in un modo o nell’altro a lasciare il Venezuela. Ma non abbiamo dimenticato il nostro Paese. Sono le cicatrici che la dittatura ci ha lasciato a ricordarci che anche dall’esilio dobbiamo continuare ad alzare la voce e a lottare per quel Venezuela di libertà e opportunità che ha potuto vivere la mia famiglia. Il 28 luglio ci saranno milioni di venezuelani all’estero che non potranno esercitare il loro diritto di voto, e anche più di 300 prigionieri politici che, anche se si trovano in Venezuela, non potranno votare. Non possiamo rimanere indifferenti, vi chiedo con il cuore in mano di essere parte di questa lotta.
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