LA VITA OLTRE IL FINE PENA MAI, AMBROGIO CRESPI ILLUMINA UN MONDO DOVE REGNA IL BUIO
20 febbraio 2021: Ambrogio Crespi non è solo un regista di film che osserva e dirige dall’alto lo svolgersi di una storia, è innanzitutto un uomo che pensa, sente e agisce in comunione con la vita del protagonista della storia. È un cantastorie incantato dalla storia che canta. Si muove e si commuove sulla scena. Mentre gira e rigira, la vita che racconta scorre e risuona nella sua. Il suo pensiero va, il suo cuore batte, la sua opera si compie in armonia con lo spirito, il corpo e il vissuto dei protagonisti dei suoi film. Non sono mai i potenti ma le vittime dei poteri del nostro tempo e della nostra società: i ricattati e gli avvelenati dai poteri criminali, i servitori dello stato di diritto vittime degli stati di emergenza, i malati e gli emarginati della società, i detenuti e i detenenti, entrambi vittime e testimoni della pena fino alla morte e della morte per pena. L’ho visto emozionarsi fino alle lacrime cinque anni fa, durante le riprese di Spes contra spem-Liberi dentro, il film che ha messo a nudo i detenuti di Opera, li ha resi visibili, ne ha scoperto l’anima, li ha fatti concretamente sperare contro ogni speranza. L’umanità dolente del carcere lascia il segno in chiunque. Lo ha lasciato anche in Ambrogio che quel film non voleva fare, un po’ per pudore, quello di violare la vita dei condannati a vita, un po’ per timore, quello di accostarsi alla banalità del male che avevano arrecato. Ma come sempre accade, l’umanità emerge sempre, anche nell’essere più disumano e si prende cura di chi se ne cura. Cosa ha fatto Ambrogio? Ha – gandhianamente – preso un raggio di sole e lo ha proiettato là dove regna la notte. “Spes contra spem”, è stato questo: il trionfo nonviolento della luce sul buio. Così è accaduto che dai detenuti di Opera, artefici del proprio cambiamento, sia partito il “viaggio della speranza” che ha raggiunto Strasburgo e i giudici supremi europei, creatori del diritto umano alla speranza. La via della nonviolenza e del Diritto ha poi portato a Roma, innanzi ai massimi magistrati italiani della Corte Costituzionale, che hanno aperto una breccia nel muro di cinta del “fine pena mai”. È stato l’effetto anche dell’opera miracolosa di Ambrogio Crespi, Spes contra spem-Liberi dentro. Un’opera che un Ministro della Giustizia, Andrea Orlando, non ha esitato a definire un “manifesto della lotta alla mafia”. È paradossale e, umanamente oltre che giuridicamente, inaccettabile che l’autore di questo capolavoro artistico, politico e civile sia oggi sotto processo per associazione di stampo mafioso, e rischi una condanna definitiva a sei anni di carcere. Quando in tutta la sua vita ha invece testimoniato a viso aperto, incarnato valori, sentimenti e opere di nonviolenza, di incrollabile speranza e continua conversione del male in bene, dell’odio in amore, di persone detenute in persone autenticamente libere. Di questo film, insieme a Nessuno tocchi Caino e al fratello Luigi, Ambrogio Crespi ha iniziato in questi giorni, a cinque anni di distanza dal primo, le riprese del suo seguito: Spes contra spem-La colpa e il perdono. Dopo il “senso di colpa” e la consapevolezza del danno arrecato, il “senso della colpa”, l’immersione in una nuova vita alla luce della coscienza. Dopo aver distrutto, nella loro prima vita, la vita del prossimo e la loro stessa vita, i detenuti di Opera rinascono a una seconda vita e, come Caino, diventano costruttori di città. Testimoni e artefici di una grande opera di conversione, interiore e culturale, da un sistema di giustizia che punisce e separa a un sistema di giustizia che riconcilia e ripara. Con il seguito di “Spes contra spem”, il “viaggio della speranza” continua e corre ora verso una nuova frontiera, quella invocata da Aldo Moro: «non un diritto penale migliore, ma qualcosa di meglio del diritto penale». In questo altro viaggio, Ambrogio si è commosso di nuovo, alcuni giorni fa, alle prime riprese de La colpa e il perdono. Quando ha sentito le parole e le emozioni di Gherardo Colombo, il giudice che si è dimesso dalla magistratura, dopo trentatré anni di servizio, perché l’idea di mandare in galera una persona lo tormentava, perché ha cominciato a pensare che il carcere non fosse più compatibile con il suo senso della giustizia, perché ha sentito tutta l’ingiustizia della prigione. Ambrogio si è commosso ancora, il giorno dopo, quando ha ripreso il volto sereno e il sorriso di Giovanna Di Rosa, Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Milano, i suoi pensieri a favore di una giustizia gentile, temperata dalla grazia, che tuteli i diritti delle persone detenute e sappia cogliere la diversità dell’uomo della pena rispetto a quello del delitto. Afferma un principio eracliteo Giovanna Di Rosa: niente resta sempre uguale, tutto scorre. «La flessibilità della pena è una cosa meravigliosa: permette a un fatto brutto qual è un reato, che causa dolore, di essere sanato sotto forma di riconciliazione». È questa, secondo lei, la missione di un magistrato di sorveglianza: valutare il cambiamento sempre possibile nella natura dell’uomo; avere fiducia nel cambiamento e nel valore dell’uomo, valore che non va mai perso per nessuna delle persone che esistono sulla terra.
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