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AD ANCONA IL CARCERE È IN MEZZO AL NULLA E CADE A PEZZI

5 aprile 2025:

Cesare Burdese su l’Unità del 5 aprile 2025

Ho visitato la Casa Circondariale di Ancona Montacuto insieme a Nessuno tocchi Caino e alla Camera penale. In simili circostanze la mia attenzione si concentra sull’architettura che visito, spingendomi sino a misurare le dimensioni delle celle. Il mio intento è quello di registrare lo stato materiale dei luoghi e acquisirne le criticità. Tale attività mi consente di entrare a contatto con gli aspetti più intimi della nostra miseria carceraria, frutto di una progettistica mai all’altezza del monito costituzionale.
Ancona Montacuto appartiene al gruppo di carceri del nostro Paese della seconda metà degli anni 70 del 900, concepiti per la massima sicurezza e la custodia di detenuti resi al massimo grado inermi.
Questo carcere, come quasi tutti gli altri, oggi, appare disumano e inadeguato a svolgere la funzione risocializzante della pena. Tra le criticità spicca in primo luogo la localizzazione in aperta campagna del complesso che rimane distante da tutto e raggiungibile con difficoltà coi mezzi pubblici.
Come ci è stato detto, la comunità anconetana è poco partecipe alle vicende del suo carcere, che rimane quindi isolato anche socialmente.
La configurazione architettonica della struttura non dimostra alcun segno di conoscenza più vasta e interdisciplinare dei problemi dello spazio edilizio in rapporto alla vita dei detenuti e di quanti ci lavorano, alle loro esigenze psicologiche e sociali.
Il pessimo stato delle strutture per mancanza di manutenzione, sovraffollate e peraltro già all’origine di scarsa qualità, aggrava ulteriormente una condizione detentiva caratterizzata da molteplici criticità.
Il rivestimento delle facciate dei fabbricati è precario e presenta numerosi stacchi, i serramenti dei locali detentivi non proteggono dall’acqua piovana e sono energeticamente insufficienti, le tubazioni idriche sono ammalorate e i rubinetti in alcuni bagni non sono a tenuta, causando infiltrazioni d’acqua sin sulle pareti e i soffitti delle celle, il riscaldamento presenta un mal funzionamento nelle celle che danno più verso l’esterno dell’edificio, gli impianti per la sicurezza e gli automatismi tecnologici sono in parte rotti e non vengono tempestivamente riparati. Il degrado coinvolge anche il misero arredo delle celle: armadietti sgangherati e sempre insufficienti, letti privi di ogni accorgimento per garantire un minimo di privacy, ripiani improvvisati, sgabelli inadeguati… La desolazione delle “stanze per la socialità” è sconfortante.
In una cella del reparto “nuovi giunti” i detenuti sono cinque, ma gli armadi per i vestiti personali sono solo quattro, come pure gli sgabelli per sedersi a mangiare. Quando sono arrivati – dicono – gli hanno fornito solo un lenzuolo e una coperta, un cuscino di gommapiuma senza federa e a volte neanche il cuscino. Gli hanno detto che sarebbero stati lì solo 15 giorni, ma alcuni di loro ci stanno da più di tre mesi. Nella sezione ci sono detenuti che parlano e urlano in continuazione, anche di notte, tre di loro compiono sempre atti di autolesionismo.
Un simile stato di cose, insieme all’abbandono dei corpi reclusi, sempre più con problemi psichiatrici e psicologici e malati cronici non curati come si dovrebbe, rende l’idea di un carcere disumano e dimenticato. Il personale di custodia lascia trasparire una inquietudine e una insoddisfazione per le condizioni lavorative svolte in un simile degrado e per i turni massacranti a causa della carenza di personale. È come se, a partire dalle istituzioni, non si credesse più alla funzione rieducativa della pena.
Ogni nuova visita mi conferma cose già viste e sentite e mi lascia sempre un ricordo particolare, fatto di cose o di persone, che conservo gelosamente. La visita a Montacuto mi ha regalato una Rita Bernardini cara e commovente. Rita che nel frastuono generale in una sezione detentiva ascolta a uno a uno i detenuti e raccoglie puntigliosamente sul suo taccuino nero racconti soprattutto di malasanità, da inoltrare al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e al magistrato di sorveglianza. Rita che all’ingresso del carcere, dolce e amorevole, si prodiga perché la voce di una anziana madre, impossibilitata a entrare, raggiunga il figlio per la prima volta detenuto. Rita che quel figlio ha cercato e raggiunto nella sua cella e da lui, in lacrime per il dolore arrecato, ha raccolto una promessa da riportare alla madre: “Le dica che ho sbagliato e che non lo farò mai più”.

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