DA ‘PRIGIONE’ A ‘CARCERE’, CON LE PAROLE NASCE IL CASTIGO
11 giugno 2022: Antonio Coniglio su Il Riformista del 10 giugno 2022 La parola, nel momento in cui viene scandita, pensa, concepisce, crea. A volte distrugge, rade al suolo. In ogni caso, la parola fucina e modella il destino. Perché, in principio, fu il verbo, il logos e, trovare le parole giuste, rimane l’unico viatico per capire, intenderci, dar vita alla realtà. Nel corso dell’ultima assemblea di Nessuno tocchi Caino, a Roma, presso la Società Romana di Nuoto, Sergio D’Elia ha riflettuto, per esempio, sulla parola “galera”. Sino al XVIII secolo, il reo era costretto, infatti, a remare nelle galee o galere: navi medioevali spinte dalla forza delle braccia sui remi. Nessuno avrebbe potuto immaginare che, nel momento in cui le navi avessero ammainato le proprie bandiere, i detenuti, sarebbero stati costretti a trasformarsi in “automi peripatetici”: coartati a muoversi, come pesci in un acquario, avanti e indietro, dentro quattro mura, senza un senso, un verso, una destinazione, un destino! Quale parola usare per definire questa condizione? Di uomini e donne condannati alla inutilità e all’impotenza? Non certo la parola “prigione”. “Prigione” deriva dal latino “prehensio”: prendere, afferrare. Ti prendo, ti afferro e ti porto in luogo distinto dalla società perché sei pericoloso, nocivo. Per un tempo determinato e senza alcuna intenzione punitiva. Starai lì, solo fino a quando sarai portatore di insidie e pericoli per gli altri. Lo Stato deve “sorvegliare”, vivaddio, ma mai “punire”! L’etimologia di “prigione”, ci consegna allora questa realtà. La crea, gli dà un nome. La prigione ha una funzione meramente preventiva. Non è un caso se, nel mondo classico, i prigionieri erano protetti da un semplice vestibolo, nel quale, in taluni casi, avevano finanche la libertà di incontrare parenti e amici. Un vestibolo, un passaggio, un passo verso qualcosa. Che poteva essere la libertà o anche la morte. Oggi – che è quasi patrimonio diffuso aver superato la pena di morte nel nome dei diritti umani universali – il termine “prigione” avrebbe potuto es plicarsi al pieno della sua capacità inventrice. Uno spazio funzionale solo a “raffreddare”, stiepidire le passioni morbose, pericolose, per un periodo centellinato della propria esistenza. Dopo, il quale si potesse ritornare al teatro della vita. La prigione serve “ad continendos homines, non ad puniendos”. In Italia, invece, abbiamo partorito l’idea insalubre e venefica di abolire le prigioni! Di creare il “carcere”. Nomen omen: nel nome il presagio, la realtà creata. Carcere deriva dal verbo latino “coerceo”. Che significa contenere ma anche domare, reprimere, frenare, punire, castigare, correggere, costringere all’obbedienza. Prigione non è sinonimo di carcere. Carcere è invece sinonimico di penitenziario, di istituto di pena. Sono luoghi progettati ontologicamente per infliggere dolori e patimenti. Gattabuie del castigo e della terribilità. Se ci incamminiamo oltre, dobbiamo ulteriormente spaurire. Abbiamo dovuto finanche aggiungere un attributo perché il nome carcere, in sé e per sé, non rendeva sufficientemente la proporzione enorme di piaghe e flagelli inflitti. C’è, infatti, un carcere “ostativo”. Ostativo deriva dal latino ob-stare: stare di contro, opporsi, contrastare. È la modernità della tortura. Il castigo perpetuo nei confronti dell’hostis, del nemico. È il coerceo senza limite: la dannazione dell’essere cristallizzata dallo Stato. Di questo, in questi mesi forse torridi, discuterà il Parlamento italiano. La Corte Costituzionale ha infatti inspiegabilmente concesso altri sei mesi al legislatore per superare una norma – l’art. 4 bis della legge sull’ordinamento penitenziario – dichiarata incostituzionale. Freud era convinto che le parole originariamente fossero incantesimi. Sarebbe un miracolo, se i signori deputati cambiassero parole, pronunciassero incantesimi di segno diverso. Sostituissero, al “coerceo”, il “prehensio”: un prendere, afferrare, per un tempo limitato, nel nome della sicurezza sociale, compatibile con i diritti umani universali. E sarebbe un incantesimo, capace di rompere un maleficio, eliminare quantomeno la parola ostativo. Sarebbe superare una parola, carcere, che potrebbe anche avere, tra gli avi, l’ebraico carcar, ossia tumulare, sotterrare. Può lo Stato sotterrare, tumulare, un uomo? I signori parlamentari hanno dinnanzi a loro, non capi mafia, boss potenti, “giganti della montagna”, ma uomini ristretti in carcere da più di 20 anni. Inermi, che hanno il diritto di lasciare il vestibolo, laddove abbiano raggiunto nuovi livelli di coscienza. Di ritornare nel teatro della vita, oltre ogni scambio sinallagmatico che umilia le coscienze. I “giganti della montagna” di Pirandello rischiano invece di essere i deputati del parlamento italiano che – alla stregua di quelli del dramma pirandelliano – non accettano la proposta della compagnia teatrale della contessa Ilse e degli scalognati di assistere alla rappresentazione di un’opera che racconta la storia della vita. Non fate come “i giganti della montagna”, signori deputati: non ammazzate. Pronunciate parole di segno diverso!
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