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L’IDEA OTTOCENTESCA DELLA PENA, ECCO L’ALBERO DELLE MELE MARCE

26 aprile 2025:

Luigi Debernardi* su l’Unità del 26 aprile 2025

La società ci presenta principalmente un solo luogo per scontare la pena: il carcere, e questo indirizza a costruire tutte le discussioni su questo unico tema, creando un circolo vizioso composto dagli stessi problemi e dalle stesse “soluzioni”. Per compiere un passo avanti in termini di civiltà, e non avere un futuro già scritto, dobbiamo avere il coraggio di accogliere una visione diversa, scindendo ciò che funziona da ciò che non funziona nell’attuale sistema penale. La galera, utilizzata in chiave punitiva e non cautelare, è un istituto relativamente giovane che ha origine agli inizi dell’800. La Costituzione italiana ha previsto espressamente che le pene debbano tendere alla rieducazione del condannato; non proponendo però un’alternativa all’istituzione totale preesistente si è generata una divisione nell’opinione pubblica sul carcere in chiave rieducativo-punitiva.
In questo scontro, negli ultimi anni ha preso piede la retorica delle “mele marce” che ha portato gli attori politici a prendere posizione dietro l’ottocentesca divisione tra agente e detenuto, guardia e ladro, buono e cattivo. In questo caso, mentre le forze politiche si sono nettamente schierate da una parte o dall’altra, il mondo istituzionale ha dimostrato di sentire l’istintuale bisogno di tutelare il corpo (di polizia penitenziaria) a priori da qualsiasi tipo di contestazione nei confronti del sistema, facendola passare, intenzionalmente o non, agli occhi dei non addetti ai lavori come “un attacco a chi svolge il proprio lavoro onestamente”, e inculcando così il pensiero che, se parliamo di sistema, parliamo esclusivamente degli agenti.
Per quanto parlare di sistema implichi anche prendere in considerazione le persone che ne fanno parte, il punto cruciale è comprendere che parte dell’albero, in particolare le sue radici, sono rappresentate dall’attuale idea di pena. La dissonanza cognitiva, quindi, risiede nel pensare che individuando con il termine “mela marcia” la singola persona, automaticamente il resto dell’albero da cui cade codesta mela sia un rimando, solo ed esclusivo, a coloro che devono far rispettare le regole, ossia il corpo di polizia, dimenticandosi così delle radici da cui questo grande albero prende vita. Sicuramente l’albero e il frutto condividono la stessa natura, ossia quella umana (in quanto l’idea di pena è artifizio umano), ma non per questo il frutto deve essere esclusivamente della stessa sostanza dell’albero. In altre parole: il poliziotto che si macchia di gesti violenti non li compie perché appartenente a una categoria di persone ma perché figlio di una società che lo ha educato a un’idea di pena tutto fuorché rieducativa, applicata in un sistema che si compone di spazi tutt’altro che consoni alla riabilitazione della persona; la stessa idea di pena che attualmente si concretizza nella parte terminale del nostro sistema penale: il carcere. Solamente non inciampando in questo tipo di fallacia logica possiamo usare il termine “sistema” in modo lucido.
L’esperimento di Stanford ha dimostrato ampiamente il potere dell’ambiente sulle persone che lo vivono, parliamo di spazi studiati e concepiti pochi secoli fa che non fanno altro che insistere su un paradigma basato sull’isolamento che genera tensione. Decidere di allontanare dalla società una persona che ha commesso un reato, isolandola in un luogo senza un programma rieducativo mirato, nel migliore dei casi non porta a nulla. È fondamentale cambiare approccio e cercare soluzioni nuove potenziando quelle che già esistono, ad esempio indirizzando maggiori risorse economiche su progetti, che hanno dimostrato di poter creare un futuro per chi ha sbagliato, a scapito del carcere, utilizzando quest’ultimo realmente solo come extrema ratio.
Questo discorso prescinde da ragioni etiche, per quanto esse siano presenti anche nei principi costituzionali, e vuole basarsi su evidenze raccolte nel tempo. I tassi del 68% di recidiva confermano che il sistema non funziona. Inoltre, già dagli inizi del ’900, una gran
mole di ricerche hanno evidenziato l’inefficienza del sistema carcerario come strumento di riabilitazione e prevenzione del crimine.
La punizione può essere ritenuta necessaria per rispondere in primis alla tutela della vittima per il danno subito e permettere anche il quieto vivere all’interno di una comunità ma se vogliamo ottenere risultati concreti, per beneficiarne tutti, è necessario sradicare le sue radici ottocentesche, abbandonando una visione meramente punitiva, per adottare soluzioni che abbiano come obiettivo la riduzione dei tassi di recidiva, in attuazione dell’articolo 27 della nostra Costituzione.
* attivista per i diritti dei detenuti

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