FRANCESCO LENA: IMPRENDITORE VITTIMA DELLA ‘GIUSTIZIA’ ITALIANA
7 dicembre 2024: L’Unità 7 dicembre 2024
Sabato 14 dicembre a Palermo, dalle 9:30 alle 13:30, presso lo Spazio Lab Eventi (ex Scalea Club), in via Faraone 2, insieme all’Osservatorio Misure di Prevenzione, Nessuno tocchi Caino terrà un’assemblea nel corso della quale presenterà il suo ultimo libro, “La fine della pena”, che racconta storie di pena di morte, di morte per pena, di pena fino alla morte. In tale occasione, sarà reso conto anche della visita al Carcere Pagliarelli di Palermo che, il giorno prima, Nessuno tocchi Caino avrà effettuato insieme agli avvocati della camera penale. Oggi, Nessuno tocchi Caino guarda oltre i sistemi capitali ormai superati nella cultura accademica e nel diritto internazionale. Affronta anche i regimi giudiziari, penali e penitenziari che sono, come la pena di morte, fuori dal tempo e fuori dal mondo. E, per la prima volta, nel libro di quest’anno Nessuno tocchi Caino propone anche storie e riflessioni che riguardano usi e costumi altrettanto mortiferi come quelli del regime italiano della prevenzione che, talvolta, è più distruttivo di quello punitivo. Nell’ultimo trentennio, nel nome della guerra alla mafia, ai processi e ai castighi penali sono stati affiancati e spesso preferiti processi sommari e castighi immediati. Quelli delle misure di prevenzione, dei sequestri e delle confische personali e patrimoniali. Quelli delle interdittive prefettizie e dello scioglimento dei Comuni per mafia. Così, imprenditori estranei alla mafia sono stati “condannati” da misure di prevenzione “antimafia” e comuni dove la mafia non esiste sono stati sciolti per mafia. Il libro di Nessuno tocchi Caino del 2024 è dedicato alla sua fondatrice Mariateresa Di Lascia, nel trentennale dalla sua morte. La giornata del 14 dicembre a Palermo è dedicata a Francesco Lena, imprenditore edile e celebre signore del vino dell’Abbazia Sant’Anastasia di Castelbuono. Un uomo d’altri tempi che ci ha lasciati il 13 settembre scorso, dopo anni di persecuzione giudiziaria nella sua doppia versione, quella del processo penale inquisitorio e quella non meno distruttiva del processo di prevenzione. Lo ricordano in questa pagina la moglie, compagna straordinaria della sua vita e della sua impresa, e un altro imprenditore che gli è stato vicino fino alla fine, vittima anch’egli delle barbariche misure antimafia.
Paola Moriconi Lena Francesco Lena, mio marito, ha avuto la disgrazia di aver incontrato lo Stato nelle sue forme peggiori. Quelle che ti prendono una mattina, ti schiaffano in carcere, ti tolgono il progetto di una vita e, poi, dopo anni di processi e tre assoluzioni fino alla Cassazione, e dopo una causa risarcitoria per ingiusta detenzione, in cui ti danno degli spiccioli, alla fine ti restituiscono una delle aziende vitivinicole e agrituristiche più belle d’Italia in uno stato di dissoluzione. La vicenda avviene nel 2010, quando viene arrestato con altre 19 persone. L’accusa è grave e infamante: mafia. I contorni riguardanti la sua posizione sono poco chiari fin dall’inizio. Lui è l’unico assolto del gruppo di coimputati in primo grado, tra l’altro con la formula più ampia e liberatoria “per non aver commesso il fatto”. La procura insiste in appello e riparte. Nel 2016 la Cassazione rigetta il definitivo e pervicace ricorso. Ma nel 2011 subentrano le Misure di Prevenzione per tutte le società del Gruppo Lena e siccome evidentemente non c’è dialogo fra le diverse sezioni del Tribunale, d’altro canto la legge non impone l’immediato dissequestro dei beni, così accade che un imprenditore, giudicato innocente è costretto a stare con le mani in mano e a sopportare le angherie di una giustizia ingiusta. Tant’è che devono essere procurate prove a dimostrazione dell’innocenza dell’imprenditore e non il contrario. Dopo una lunga serie di rinvii, nel 2018, dopo otto anni, finalmente ci restituiscono l’azienda e tutte le società. L’amministrazione giudiziaria in tutti questi anni non ha mai approvato bilanci e non pagando i contributi ai lavoratori non è riuscita a incassare nessun spettante finanziamento regionale, avendo il DURC irregolare. Da 750.000 bottiglie l’anno di vino si è passati a 150.000 bottiglie. Sono stati abbandonati ettari di vigneti. La rete di vendita, il portafoglio clienti faticosamente conquistato negli anni, perso irrimediabilmente. L’azienda ha smesso di produrre l’olio dei suoi 40 ettari di uliveto. Il Resort, realizzato ristrutturando un’Abbazia del XV Secolo, lasciato senza manutenzione. Tasse e contributi non versati e, nonostante gli incassi che sfioravano i 2 milioni di euro, nessun pagamento a rate del mutuo di Banca Nuova. L’Istituto di Zonin, assorbito a zero euro da Banca Intesa, ha ceduto a basse percentuali i propri crediti a una full-service credit management company, la Amco Spa. Quest’ultima, adesso, vuole l’intero credito, più gli interessi di mora maturati per il mancato versamento delle rate da parte dell’Amministrazione giudiziaria. Inoltre, i creditori, non potendosi rivalere sull’azienda negli anni delle Misure di prevenzione, hanno proceduto con azioni legali rivolte alla persona fisica di mio marito. In sintesi, tre sentenze di assoluzione, nove giudici che hanno accertato la sua estraneità a condotte illecite, 1.352 giorni di calvario, dall’arresto alla pronuncia della Cassazione, di cui 23 in carcere e 492 ai domiciliari. Sono i numeri che ha valutato la quinta sezione della Corte d’appello di Palermo per la “custodia ingiustamente sofferta” da Francesco Lena. Il Collegio presieduto dal Giudice Maria Patrizia Spina gli ha riconosciuto una somma riparatoria pari a euro 53.285,90. Quando l’incredibile si interseca con la realtà è allora che nascono storie come questa che ha coinvolto mio marito in prima persona. Raccontarla non è semplice per me ma penso sia doveroso farlo. Non si dimenticano i titoli della grande stampa a poche ore dall’arresto, non si dimentica l’indifferenza, la diffidenza, la sofferenza e la solitudine. È sempre stato un uomo libero mio marito. Libero nel fare impresa, libero da legami equivoci, libero di realizzare quello in cui ha sempre creduto anche lontano da casa sua e adesso rimane solamente l’ombra della sua “creatura”. UN UOMO CHE NON HA MAI RINUNCIATO A COMBATTERE PER LA LIBERTÀ
Pietro Cavallotti
Fino alla fine ha provato a salvare la sua azienda dal fallimento. Fino alla fine ha chiesto alle Istituzioni di intervenire per aiutare gli imprenditori vittime di ingiusti sequestri. Con la morte di Francesco Lena, perdiamo non solo un imprenditore visionario. È stato molto di più di questo. Perdiamo un convinto combattente per la libertà e la giustizia. È stato proprio con lui che nel 2015 ci siamo ritrovati. Eravamo ancora tutti sotto processo e al Tribunale di Palermo era ancora radicato il regime Saguto. Eppure, con lui, abbiamo deciso di denunciare pubblicamente un problema gravissimo e di intraprendere un percorso che ci ha portato a scrivere proposte di legge, ad audizioni in Parlamento, a decine di convegni in tutta Italia, a trasmissioni televisive di rilievo nazionale. Non posso dimenticare le conversazioni chilometriche in cui mi ripeteva una storia che io ho imparato a conoscere a memoria. In apparenza me la raccontava per rendermi partecipe del dramma che aveva vissuto ma in realtà lo faceva per sfogarsi o, forse, per cercare di chiarire a se stesso qualcosa che, fino alla fine, non ha mai capito. Come può in imprenditore, scappato dalla Sicilia per sfuggire alle estorsioni, essere arrestato quarant’anni dopo per complicità con la mafia? Come può un imprenditore onesto, riconosciuto tale da Falcone, essere accusato da colui che è considerato l’erede di Falcone? Perché, dopo un’assoluzione, non vengono restituiti subito i beni? E perché, dopo che vengono restituiti, nessuno deve pagare per i danni che sono stati fatti? È stato colpito a un’età in cui un uomo dovrebbe vivere gli anni che gli rimangono godendosi la famiglia e il frutto di una vita di lavoro. Combattere quando si è sicuri di vincere o quando, almeno, si ha abbastanza tempo per arrivare alla fine della battaglia è meritorio. Ma combattere, come ha fatto lui, anche quando è affiorata la tremenda consapevolezza che il tempo non gli sarebbe bastato, è eroico. Credo che lo ha fatto per dimostrare a sé stesso di non essere un uomo finito. Lo ha fatto come ultimo atto di amore nei confronti dei figli: assicurare ai figli e ai nipoti un’opportunità, questa era la sua preoccupazione che non mancava mai di confidarmi. Inutile dire, senza troppa ipocrisia, che c’è molta amarezza perché in Italia una vita intera non basta per avere giustizia. La paura di arrivare alla fine di una vicenda giudiziaria perdendo per strada persone importanti è reale e insopportabile. E questo non è degno di in Paese civile. Lo ricorderò sempre come una persona che non si è mai arresa, che ha avuto la forza di mostrarsi fragile in televisione. Che ha parlato quando tutti tacevano. Una persona che ha perdonato i suoi carnefici. Un uomo che, sino alla fine, ha sperato nel cambiamento facendosi artefice del cambiamento. Che lo Stato abbia il buon senso di fare adesso ciò che avrebbe dovuto fare da molto tempo: salvare l’Abbazia e intervenire al più presto per evitare la devastazione di altre persone per bene. Abbraccio con affetto i figli e la moglie e li invito a proseguire una delle opere più belle intraprese dall’ingegnere: la battaglia per la libertà e la giustizia.
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