PENA DI MORTE, IN IRAN UN’ESECUZIONE AL GIORNO
20 febbraio 2022: Elisabetta Zamparutti su Il Riformista del 18 Febbraio 2022 Abbiamo appena fatto l’esperienza di come il male possa manifestarsi in modo categorico, improvviso, senza guardare in faccia nessuno. Questo dovrebbe indurci a non dare mai nulla per scontato. Dovrebbe renderci capaci di capire quali sono gli elementi, valori e principi che fanno di una vita un’esistenza, di uno Stato uno Stato di Diritto. Dovrebbe incoraggiarci a cogliere ogni occasione per essere i promotori di un cambiamento in senso liberale e democratico, costruttori di benessere diffuso. Una di queste occasioni è quella del male costituito e insidioso proprio dei regimi illiberali e autoritari. Come quello iraniano dove oggi è presidente Ebrahim Raisi, definito dagli stessi esponenti del regime come un “campione della forca”, tra i più attivi membri di quella “Commissione della morte” che nel 1988 giustiziò oltre 30.000 prigionieri politici nel giro di pochi giorni. Un eccidio che molti, oggi, chiedono sia considerato un crimine contro l’umanità. Ora, questo Presidente è ancora innamorato della forca e di questo amore perverso continua a darcene prova. Nel 2021, secondo un recente rapporto di Iran Human Rights Monitor, ci sono state almeno 365 esecuzioni. Sono invece almeno 371 secondo il monitoraggio di Nessuno tocchi Caino. Facendo la media, almeno una al giorno. E nell’anno appena iniziato, la pena di morte sembra avanzare a un ritmo ancora più sostenuto se consideriamo che nel solo mese di gennaio ci sono state almeno 46 esecuzioni secondo un conteggio di Iran Human Rights. Iran Human Rights Monitor mette in evidenza come la malsana lotta alla droga si sia tradotta l’anno scorso in 131 esecuzioni per reati a essa legati. Quest’anno, nel mese di gennaio, sono state già 17. Numeri dunque ancora elevati, nonostante una riforma introdotta nell’ottobre del 2017 che avrebbe dovuto, aumentando la quantità minima di droga necessaria per imporre la pena di morte, contenere l’uso della forca quale mezzo di contrasto all’uso di stupefacenti. E poi c’è la pena di morte quale strumento di repressione del dissenso. Almeno 12 esecuzioni sono state compiute per motivi politici l’anno scorso, dice Iran Human Rights Monitor. Si è per lo più trattato di appartenenti a minoranze etniche: gli ahwazi, arabi iraniani della provincia del Khuzestan, dove le manifestazioni di contestazione del regime teocratico esplose nel novembre 2019 sono state brutalmente represse; i baluci che hanno visto crescere un’onda repressiva nei loro confronti tale per cui ben 15 delle esecuzioni compiute nel primo mese del 2022 sono di appartenenti a questa etnia. Per tutti loro non c’è stata solo la pena di morte, ma anche la tortura. Quella subita direttamente affinché confessassero. Oppure quella subita indirettamente perché giustiziati sulla base di confessioni estorte ad altri sotto tortura. C’è un’immagine agghiacciante di quattro giustiziati di etnia ahwazi – Jasem Heidary, Hossein Silawi, Ali Khasraji e Nasser Khafajian – nella prigione di Sepidar ad Ahwaz, la capitale del Khuzestan, il 28 febbraio 2021. Su tutti e quattro i corpi restituiti alle famiglie per la sepoltura erano visibili lividi, prove evidenti che erano stati torturati. Le loro labbra avevano ancora i segni delle cuciture autoinflitte per lo sciopero della fame che avevano condotto nel vano tentativo di richiamare l’attenzione sulle loro condizioni detentive, le interdizioni alle visite familiari e sulle loro imminenti impiccagioni. Il patibolo non ha risparmiato donne e minori. Sono state almeno 18, secondo i dati raccolti da Nessuno tocchi Caino le donne impiccate in Iran nel 2021. Per lo più vittime di violenze e ree di aver ucciso per legittima difesa. In un Paese in cui la responsabilità penale è di fatto legata alla pubertà – poco meno di nove anni per le donne, di poco meno di 15 anni per gli uomini – continua ad accadere che vengano giustiziati anche minorenni al momento del fatto. Nonostante l’Iran sia parte della Convenzione per i diritti del fanciullo che vieta la pena di morte in questi casi, nel 2021 ne sono stati impiccati almeno sette. A novembre 2021, almeno altri 85 erano in attesa di esecuzione, secondo esperti delle Nazioni Unite. Sono per lo più ragazzi appartenenti a gruppi marginalizzati o che sono stati a loro volta vittime di abusi, e si trovano nel braccio della morte a seguito di condanne emesse in processi iniqui. Mi chiedo allora se non sia questa forma di morte diffusa un sadico virus. Se non dovremmo temere di esserne colpiti. E, quindi, se non dovremmo, tutti, sentirci chiamati a dare una risposta tempestiva a tutto questo male.
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