LA STORIA DI DOMENICO PAPALIA, L’EX GENERALE DELLA ‘NDRANGHETA IN CARCERE MEZZO SECOLO: ‘E’ MALATO, GRAZIATELO’
9 ottobre 2021: Antonio Coniglio su Il Riformista dell’8 ottobre 2021
Quando Domenico Papalia varcò per la prima volta i portoni impietosi delle patrie galere del nostro paese era il 1977. Le televisioni trasmettevano ancora il “carosello” in bianco e nero, Presidente della Repubblica era Giovanni Leone, sul soglio di San Pietro sedeva Paolo VI, e gli indiani metropolitani contestavano Luciano Lama alla Sapienza. Era un altro mondo: un salto indietro di due generazioni. Tutti i protagonisti di allora ci hanno lasciato, gli “indiani” si sono estinti, ma Papalia rimane ancora dentro quelle quattro mura, in una “riserva” senza spazio e senza tempo. Mezzo secolo di carcere che non è un avamposto della legge, un sagrato del diritto, ma assurge a quella che Leonardo Sciascia indicava come un’ispezione di terribilità: lo stato che, mentre pensa di combattere la mafia, si specchia, ne mutua i mezzi, finisce per rassomigliare a essa. Nella Ndrangheta esistono i “fiori”, le “doti”, a guisa dei gradi dell’esercito. Papalia era considerato un generale: un “mammasantissima”. Se era, non è. Perché, in questi quarantacinque anni di galera, ha studiato, ha esplorato sé stesso, ha raggiunto un livello diverso di elevazione della sua coscienza. Anche nel dolore più sordo, la perdita di un figlio, è divenuto portatore di vita, attraverso un gesto generoso, estremo: la donazione degli organi. A chiedere la grazia per lui sono stati uomini come lo storico sindacalistica della Cgil Francesco Catanzariti e il giudice Ferdinando Imposimato. Oggi, a reiterare questa richiesta al Presidente Mattarella sono i compagni di Nessuno tocchi Caino. Lo fa quel mondo radicale della nonviolenza a cui Papalia ha aderito senza nulla chiedere in cambio, se non amore e una nuova educazione sentimentale. Che Stato è quello che tiene un uomo prigioniero quarantacinque anni attendendo che il suo corpo inerte ritorni nella polvere? Che giustizia è quella che ammazza i prigionieri? Non ci è stato forse insegnato come in carcere entri l’uomo, non il reato? In questa vicenda, si assiste, attoniti e sgomenti, al parossismo di un ribaltamento costituzionale: in carcere entra il reato a cui restare attaccati per sempre. È un paradosso, la stessa logica funerea che Buscetta indicò a Giovanni Falcone: «Non dimentichi, signor giudice, che il suo conto con Cosa Nostra non si chiuderà mai». Oggi Domenico Papalia è gravemente malato, “con un cancro alla prostata con in più metastasi ossee”, secondo il clinico che lo ha visitato. I suoi avvocati hanno chiesto il differimento della pena, sulla base dell’art. 147 del codice penale. Si tratta di una norma partorita nella temperie di un regime: finanche, negli anni del fascismo, di Alfredo Rocco, ci si poneva il problema di non tenere in carcere gli ammalati e i moribondi. Se i giudici di sorveglianza dovessero rigettare questa istanza, vorrebbe dire che lo stato liberale e democratico è più illiberale e liberticida di una stagione di negazione della libertà. Quale mafia si combatte tenendo in galera Papalia? Quale monopolio legittimo della forza si esercita? Quando è stato incarcerato quest’uomo di Platì – un paese della Calabria segnato dal marchio di Caino – il presidente degli Stati Uniti era Jimmy Carter e, in Cecoslovacchia, duecento intellettuali firmavano la Charta 77. C’era ancora il muro di Berlino, l’Urss e Breznev. Oggi, di tutta questa narrazione, è rimasto solo Domenico Papalia. Ristretto in quel luogo anacronistico, fuori dalla storia, che si chiama carcere, ove gli orologi sono rotti e si infligge soltanto sofferenza. Come dice Sergio D’Elia, il carcere è diventato un manicomio, un nosocomio, un lazzaretto: si perde la testa, la vista, l’udito, finanche i denti. Nulla a che vedere con la sicurezza sociale che imporrebbe una restrizione breve, limitata al tempo in cui si è pericolosi. Il carcere è proprio un luogo di pena, nel quale ci si ammala, si muore. Troppo semplice dire «Chi sta lì ha sbagliato: è giusto che paghi». È questa la prima regola della mafia, il suo statuto ontologico, non dello Stato. Noi Le chiediamo, Presidente Mattarella, la grazia per Domenico Papalia. Grazia è benevolenza, bellezza, diritto. La chiediamo a Lei perché è il garante di quel principio di umanità e di cambiamento sancito dalla nostra Costituzione. Perché, di quelli del ‘77, di quel mondo che non esiste più, è rimasto solo Papalia. Non ha munizioni, doti, gradi. È malato, disarmato, inerme. Solgenitsin diceva che “un petto inerme può resistere anche ai carri armati, se al suo interno batte un cuore puro”. Sarebbe triste se il cuore di Papalia, convertito alla nonviolenza, allontanatosi dalla mafia, resistesse a tutto. Eccetto ai “carri armati” del nostro regime penitenziario.
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