LO STATO DELLA PENA DI MORTE NEGLI USA
26 giugno 2019: Un’istantanea sullo stato della pena di morte negli Usa. La “scatta” il Death Penalty Information Center in occasione dell’esecuzione n° 1500 effettuata contro Marion Wilson il 20 giugno 2019. Nel 1972, con la sentenza Furman v. Georgia, la Corte Suprema degli Stati Uniti dichiarò incostituzionale non la pena di morte, ma le leggi con cui nei vari stati veniva regolamentata. 4 anni dopo, con la sentenza Gregg v. Georgia la stessa Corte Suprema considerò sufficienti le modifiche apportate dai vari stati, e diede di nuovo il via libera alle esecuzioni, che ripresero il 17 gennaio 1977 con l’esecuzione di Gary Gilmore, una vicenda che fu al centro di un romanzo all’epoca molto famoso, “The Executioner's Song”, Il canto del boia, di Norman Mailer. Da Gilmore a Wilson, nell’arco di 42 anni, negli Stati Uniti sono state effettuate 1.500 esecuzioni. Lo studio del DPIC ritiene che però, allo stato delle cose, si stiano riproponendo tutti i problemi che nel 1972 portò alla dichiarazione di incostituzionalità delle leggi capitali, e l’esecuzione di Wilson ne è un chiaro esempio. Da tempo la Corte Suprema pone come punto fermo che si debba ricorrere alla pena di morte solo per i “peggiori tra i peggiori assassini”. Ancora oggi però la pena capitale è invece arbitraria, perché risente della razza (del criminale e della vittima), della geografia (se un omicidio avviene dove la pena di morte è in vigore o no, o comunque dove i procuratori la perseguono oppure no), dei fattori economici, e della bravura e dedizione degli avvocati. Wilson, ad esempio, non era certo fosse colui che aveva sparato alla vittima, il processo non aveva chiarito a sufficienza se l’omicidio fosse stato compiuto materialmente da lui o dal coimputato Robert Butts (giustiziato nel 2018). Inoltre alcuni analisti avevano notato già all’epoca del processo che il caso era quasi identico ad un omicidio commesso nel 1995 in una contea confinante, quando nell’incertezza su chi avesse materialmente sparato entrambe gli imputati erano stati condannati all’ergastolo senza condizionale e non a morte. Come se non bastasse, all’interno dello stesso caso Butts/Wilson si era verificata una forte sproporzione: la pubblica accusa aveva proposto a Wilson un accordo per non essere condannato a morte in cambio di una confessione, e a Butts questo accordo non era stato offerto. Wilson lo aveva rifiutato, e fino all’ultimo giorno della sua vita ha insistito di non essere lui il responsabile dell’omicidio. Al tempo del processo, l’avvocato d’ufficio di Wilson non aveva nessuna esperienza di casi capitali, e in seguito venne anche arrestato. Inoltre Wilson, lungi dall’essere uno tra i “peggiori tra i peggiori”, aveva una chiara storia di traumi e negligenze sin dai tempi dell’infanzia, che i suoi avvocati d’ufficio non approfondirono e non presentarono alla giuria popolare. Inoltre, in quanto uomo di colore, Wilson appartiene a una minoranza che all’interno dei bracci della morte è rappresentata con una forte sproporzione, e il tutto è avvenuto al Sud, ossia quella zona degli Stati Uniti che da sola compie l’80% delle esecuzioni. Un ulteriore spunto di riflessione offerto dall’approfondimento del DPIC è che la vittima, Donovan Parks, era un agente di custodia fuori servizio. In tutti gli stati dove è in vigore la pena di morte l’uccisione di un membro delle forze dell’ordine è un reato capitale, e però i dati degli ultimi 40 anni, e di 1500 esecuzioni dimostrano che l’uso della pena di morte non rende affatto più sicura la vita degli agenti. Analizzando i dati sugli omicidi stilati annualmente dal FBI (Uniform Crime Report, di cui Nessuno tocchi Caino pubblica ogni anno un riassunto), risulta che 8 tra i 9 stati con la percentuale più bassa di agenti uccisi in servizio non ha la pena di morte, e il 9°, il Wyoming, ha la pena di morte ma da tempo non la usa, e infatti il suo braccio della morte è vuoto. I 4 stati dove la pena di morte è in vigore ma che hanno la percentuale più basse di vittime tra le forze dell’ordine (Nebraska, Oregon, South Dakota, e Wyoming) fanno un uso molto limitato della pena di more: nessuno dei 4 stati ha infatti compiuto più di una esecuzione per decennio dal 1976 ad oggi. La 1500a esecuzione avviene in un momento in cui la pena di morte è da tempo in declino. Mentre gli Stati Uniti ci avevano messo sette anni per passare dalla esecuzione 500 alla 1000 (1998/2005), c’è voluto il doppio del tempo, 14 anni, per passare dalla 1000 alla 1500. Meno di 50 condanne a morte sono state imposte in ciascuno degli ultimi quattro anni, e tutte concentrate in pochi stati. Le esecuzioni sono diventate anche sempre più geograficamente isolate. Nel 2018, più della metà di tutte le esecuzioni si sono svolte in Texas e solo otto stati hanno compiuto esecuzioni. Ma se il numero di esecuzioni sta diminuendo, non diminuiscono i problemi. 165 persone sono state “esonerate”, ossia prosciolte dopo una iniziale condanna a morte. Questo significa che una persona viene riconosciuta innocente e scarcerata ogni 9,1 persone giustiziate. Da quando la pena di morte è state reintrodotta, più di 200 persone sono state giustiziate ai sensi di leggi che in seguito sono state dichiarate incostituzionali. Ad esempio, prima della sentenza del 2002 che dichiarava incostituzionale giustiziare i portatori di deficit intellettivo (Atkins v. Virginia), almeno 43 persone con disabilità intellettuale erano già state giustiziate. E anche dopo Atkins v. Virginia in Texas è stato usato uno standard di valutazione del deficit intellettivo che ha consentito di giustiziare 20 persone che in altri stati non sarebbe stato possibile giustiziare, e che oggi nemmeno il Texas potrebbe più giustiziare dopo che la legge statale in materia è stata dichiarata incostituzionale nel 2017 con la sentenza Moore v. Texas. Prima del 2005, quando la sentenza Roper v. Simmons lo rese incostituzionale, 22 persone erano state giustiziate per reati compiuti quando ancora erano minorenni. La Florida ha giustiziato 23 persone che erano state condannate utilizzando una legge sulle attenuanti che in seguito è stata dichiarata incostituzionale, e almeno altre 90 persone sono stete giustiziate in altri stati prima che diventasse incostituzionale applicare le attenuanti solo se direttamente collegate al reato in questione, e non alla storia personale dell’imputato. Altre 11 sono state giustiziate senza l’unanimità della giuria popolare, oggi obbligatoria almeno in parte del processo in tutti gli stati. Anche le esecuzioni più recenti continuano a mostrare problemi: delle 25 persone giustiziate nel 2018, almeno 18 avevano evidenti problemi di salute mentale, di danno cerebrale, di disabilità intellettiva o di traumi infantili cronici. Dei 25, tre hanno accelerato volontariamente l’esecuzione rinunciando ai ricorsi, e un quarto (non compreso nelle 25 esecuzioni) che riteneva che l’iter di esecuzione non fosse sufficientemente rapido si è suicidato. (Fonti: DPIC, 24/06/2019)
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