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QUANDO CAINO PUÒ SALVARSI: PROSPETTIVE DELL’ABOLIZIONISMO ISLAMICO

13 settembre 2025:

Domenico Bilotti su l’Unità del 13 settembre 2025

Dopo quattordici anni la preghiera della cristiana keniota Dorothy Kweyu ha realizzato il più laico dei “miracoli”: il figlio Stephen Munyakho non è più nel braccio dei condannati a morte. L’uomo avrebbe ucciso con un’arma da taglio il collega di lavoro Makrad Saleh per una questione d’affari. La famiglia aveva suggerito l’ipotesi della legittima difesa, ma potevano sussistere gli estremi per un “omicidio nonostante (oltre) l’intenzione”, commesso, cioè, senza volere cagionare l’evento fatale. La famiglia dell’ucciso, invece, aveva perorato l’istituto della rivalsa (“occhio per occhio, dente per dente”), con esecuzione dell’assassino – e tale istituto era stato riconosciuto in appello, nonostante la più mite condanna in primo grado per omicidio colposo. Il procedimento si è oggi concluso con l’ordine di liberazione di Stephen dalla prigione saudita dove attendeva la sentenza. Il tribunale gli ha potuto commutare la pena dopo che la sua famiglia , per compensare la perdita, ha corrisposto a quella della vittima il diyat, il “prezzo del sangue”. Una bella notizia, perché apre uno scenario controtendenziale rispetto al macabro consolidamento delle pene capitali. L’invocata esecuzione per decapitazione è, del resto, una delle forme di comminatoria più umilianti per i familiari del condannato, vista l’idea sacrale e affettiva dell’integrità della salma, particolarmente avvertita, non uniche, dalle minoranze cristiane.
Le contraddizioni sollevate dagli orientamenti estensivi non sono comunque poche. Si fa notare che la restituzione patrimoniale rispetto all’omicidio di una donna, estintiva della condanna a morte, costa al presunto assassino circa la metà di quanto dovuto per una vittima di sesso maschile. Il rischio è poi che le corti territoriali applichino criteri monetari elevati, così da rendere l’estinzione per contrappasso patrimoniale un privilegio per i soli (pochissimi) che possono permetterselo. Sia il Corano sia i detti del Profeta utilizzano termini tipici di un’organizzazione economica legata a esigenze pratiche e criteri di misurazione non sovrapponibili all’attuale configurazione dei rapporti civili: merci, oggetti o bestiame (“cento cammelli” dice il sacro testo) dell’economia carovaniera. E tuttavia quelle scritture indicano un senso di equità, equilibrio, incontro indulgente tra il contenimento del desiderio vendicativo e la prestazione di una tutela adeguata, ol tre che auspicabilmente monitoria e pedagogica.
Il giurista egiziano al-Qastallani fu tra i più zelanti custodi della tradizione, e proprio per questo il suo pensiero, riguardato oggi, appare più inclusivistico che fondamentalista. Appassionato di misticismo, metteva in guardia dagli eccessi esoterici. Convinto della necessità che una comunità ben ordinata dovesse avere istituti di riparazione patrimoniale, riteneva però che il risarcimento concretizzasse un vincolo di proporzionalità rispetto alla condotta e al danno, oltre che alle effettive possibilità dell’agente. Siamo abituati a pensare al mondo arabo in termini essenzialmente teocratici, ma quel sistema ha una cultura evolutiva superiore al recente accentramento politico-giuridico delle sue istituzioni.
In tempi molto più vicini, ‘A’id al-Qarni ha lavorato sulla corretta interpretazione del lemma jihad. Coi detenuti delle organizzazioni miliziane ha rivendicato il significato interiore e spirituale dello sforzo individuale per la redenzione e la conversione. Ne ha derivato una influente teoria penalistica, pur raramente accolta dai legislatori, per cui la differenza religiosa non dovrebbe essere regolamentata dalle leggi in materia criminale, bensì rimessa a consuetudini basate sul consenso e sulle relazioni orizzontali. Il suo pensiero, di formazione saudita, diviene giovevole per le minoranze islamiche e cristiane, alle prese con vessazioni istituzionali (in tema di diritto matrimoniale, contratto, cittadinanza, proprietà) e ostracismi di natura etnico-sociale.
L’ordinamento saudita è privo di parlamento, sicché tali minoranze hanno difficoltà a trovare un canale di rappresentanza nella sfera politica. L’abbandono del boia e la riforma giudiziaria, tuttavia, non sono impossibili. L’Arabia Saudita non vincola il giudice nemmeno al precedente giudiziale e per la sua posizione conta consistenti migrazioni di comunità (ad esempio, i cristiani filippini e gli hindù provenienti non solo dall’India). Casi come quello che abbiamo esposto lasciano prevedere sviluppi. Una nuova generazione di giudici e norme potrebbe riavvicinare alla letteratura coranica abolizionista e al superamento dei poteri straordinari in materia di polizia. Le consuetudini del boia non sono né diritto naturale né diritto codificato. Per la logica giuridica e i diritti di tutti, voltare pagina sarebbe finalmente non “amal” (speranza incondizionata) o “radshà” (accoglimento di una supplica), ma “fursa” (occasione fiduciosa, proficua opportunità).

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