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BENNARDO, 89 ANNI, CIECO E IN SEDIA A ROTELLE, CHE PERICOLO COSTITUISCE?

23 agosto 2025:

Emiliano Silvestri su l’Unità del 23 agosto 2025

Ha 89 anni, da 33 è rinchiuso in carcere e ora si trova nella Casa di reclusione di Opera, alle porte di Milano; i compagni di pena lo chiamano “Zio Bennardo”. Da otto anni è assiduo frequentatore dei laboratori di Nessuno Tocchi Caino – luogo di dialogo tra detenuti e “liberi”; spazio di ricerca, individuazione e ricostruzione – per gli uni, non di rado anche per gli altri – della propria identità.
Gli esseri umani rinchiusi nelle carceri italiane patiscono trattamenti inumani e degradanti. Questo ha certificato, l’8 gennaio 2013, la sentenza-pilota (pilota perché non si limitava a giudicare la fondatezza delle doglianze dei ricorrenti ma allargava il suo giudizio all’intero sistema penitenziario italiano) della Corte europea dei diritti dell’uomo. Nella Causa “Torreggiani e altri contro Italia”, infatti, la Corte riscontrava che, in particolare a causa del sovraffollamento nei suoi istituti di pena (148% nel 2012), l’Italia violava l’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Per questo ricordava che: “lo Stato è tenuto a organizzare il suo sistema penitenziario in modo tale che la dignità dei detenuti sia rispettata” ed esortava lo Stato italiano: “ad agire in modo da ridurre il numero di persone incarcerate, in particolare attraverso una maggiore applicazione di misure punitive non privative della libertà”. Al 30 maggio 2025 (relazion e del Garante Nazionale delle persone private della libertà personale) la situazione pare altrettanto disumana e incivile: sovraffollamento medio al 134%; in 10 penitenziari tra 236,84% e 187,34%.
A dispetto della sua inciviltà, il carcere può divenire tempo e spazio di conversione dalla violenza alla nonviolenza, dalla barbarie alla civiltà. È anche per innescare e accompagnare questo percorso che l’associazione concepì i suoi laboratori, oggi sono diventati quattro, nelle sezioni di alta sicurezza. Li chiamò: “Spes contra spem”; un richiamo all’originale interpretazione che del motto paolino faceva Marco Pannella quando esortava tutti, in particolare i carcerati, a “essere” e non ad “avere” speranza.
Bennardo Bommarito questo cammino di speranza – quando ogni speranza sembra razionalmente essere preclusa – lo ha intrapreso e per i compagni di pena è divenuto: “uno che non dice mai una parola fuori posto ma che, per tutti, ha sempre una parola di conforto e di pace”. Venerdì 8 agosto è arrivato nella sala del teatro del carcere di Opera in carrozzina, spinto dal suo compagno di cella Antonio D’Alì, ultrasettantenne, che lo accudisce amorevolmente ogni giorno. Perché carità, empatia e fraternità sopravvivono anche in questi luoghi. Chi ha partecipato negli anni ai laboratori di Opera e lo ha visto sempre vitale, allegro, sorridente, ha scoperto con sgomento che “zio” Bennardo all’improvviso è diventato cieco. Non vede più perché dopo trentatré anni, tutto il suo essere rifiuta di continuare a vedere le sbarre, le celle, i corridoi, il cemento che lo contorna e lo sovrasta? Perché ormai non vuole vedere più nulla, nemmeno chi partecipa ai laboratori? Per ché ha vissuto trentatré anni in spazi angusti dove l’occhio non può spaziare ed è ridotto a orizzonti di pochi metri? Questo non lo sappiamo.
Quello che sappiamo è che un uomo di quasi novant’anni in carrozzina e cieco rimane segregato in una cella. Si dirà che vi è rinchiuso in forza di una sentenza e di una pena irrogata regolarmente da un Tribunale della Repubblica. Ma il punto sembra non essere questo. Il punto sembra essere: in che Stato viviamo? La nostra Costituzione proclama che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato: quale rieducazione ci aspettiamo possa produrre il mantenere quest’uomo nelle patrie galere? Direttrice del carcere di Opera, Provveditore Regionale dell'Amministrazione Penitenziaria e Tribunale di Sorveglianza di Milano sono a conoscenza delle condizioni di Bennardo Bommarito. Agiranno? Quando? Come?
Lo Stato – molti dicono – siamo noi. La domanda perciò diventa: in che stato siamo ridotti? Un ottantanovenne cieco e in carrozzina rappresenta un pericolo per la nostra vita? Cosa ci guadagniamo oggi dal suo essere privato delle cure e della libertà? Pensiamo davvero che diventerà un uomo migliore se continuerà a “marcire in galera”? L’ardua sentenza non spetterà ai posteri ma a noi. Oggi. Alle personalità delle istituzioni, della politica. E dell’informazione. Perché la situazione di “zio Bennardo” grida perdono, non vendetta.

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