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A SALVARE VITE NELLE CARCERI SONO GLI STESSI CHE LE ABITANO

31 marzo 2024:

Sergio D’Elia su L’Unità di sabato 30 marzo 2024

Anche quest’anno la nostra compagnia di giro ha ripreso a “visitare i carcerati”, opera di misericordia corporale che dovrebbe sentirsi impegnato a fare almeno una volta nella vita – come il battesimo, la prima comunione e la cresima – ogni bravo “cristiano”, detto in senso confessionale ma anche più semplicemente e laicamente nel senso che dalle mie meridionali parti vuol dire persona, uomo o donna di buona volontà. L’anno scorso ne abbiamo visitate 120 su 189 con Rita, Elisabetta, avvocati delle camere penali e anche magistrati, iscritti e simpatizzanti di Nessuno tocchi Caino o semplici cittadini convinti che per farsi un’idea del carcere occorreva seguire Piero Calamandrei e il suo “bisogna aver visto”.
La pena che si vede, si respira e si tocca con mano, contagia e imprigiona tutto e tutti: il carcere, i detenuti e i “detenenti”. Le carceri fanno davvero pena. La pena non è solo quella del detenuto e dell’internato. La pena è anche quella del “detenente” che opera in un luogo di lavoro – spesso forzato fino a un tempo di straordinario obbligatorio – malsano, pericoloso e usurante che al confronto la più folle catena di montaggio di una fabbrica fordista può sembrare un posto di villeggiatura. Nelle carceri manca personale, mancano risorse finanziarie, mancano educatori, mancano scuole, mancano medici, psicologi, psichiatri, manca lavoro, mancano rapporti affettivi, manca il rispetto umano, l’amore e contatti umani significativi. A cosa può condurre una struttura carente di questi bisogni essenziali se non alla violenza? In questo stato, atti di autolesionismo, aggressioni al personale, pestaggi nei confronti dei detenuti, sono all’ordine del giorno.
Sono sempre più convinto dell’urgenza di liberarsi, hic et nunc, della necessità del carcere, di questo carcere sempre più divenuto – tant’è che così è comunemente denominato – “luogo di pena”, “istituto penitenziario”. Tali sono le celle di isolamento, le sezioni di osservazione, ordine e sicurezza, i reparti di transito e di assistenza detta “sanitaria”, dove sono cumulati e tumulati “tossici”, minorati fisici, malati terminali e malati mentali che in altri tempi tenevamo in luoghi di cura, non di pena. Detto questo, aggiungo con altrettanta convinzione: beati i “costruttori di pace” nelle carceri, quei detenuti e quei “detenenti” che tutti i santi giorni sono impegnati nell’opera anch’essa di misericordia corporale di riduzione del danno connaturato a una struttura violenta, mortifera, patogena che infligge vere e proprie pene corporali, quelle che usavano nel medioevo e che poi abbiamo abolito perché inumane e degradanti.
Mutilazioni fisiche, menomazioni mentali, perdita dei fondamentali sensi umani, sono la cifra della condizione carceraria. Non riuscire a volgere lo sguardo oltre le sbarre di una finestra spesso oscurata da una rete fitta o dalla “bocca di lupo” e al di là del muro di cinta per vedere l’infinito, l’azzurro del cielo e del mare, il verde di una collina e il rosso di un tramonto, rende ciechi.
“Occhio per occhio” è la pena, non solo la privazione della libertà. L’assenza di rilevanti contatti umani, il denegato bisogno di riconoscimento in quanto persona, la mancanza di amore, affettività, sessualità, altera il battito cardiaco, rallenta la circolazione del sangue, fa impazzire il cuore e le cellule di organi vitali. La morte di crepacuore o di cancro è la pena, non solo la privazione della libertà.
Il fine pena mai, una pena senza speranza, il pensiero fissato per sempre al male arrecato, il pregiudizio del reato e del danno irreparabile, fa perdere il senso della vita e anche il senno. La pazzia è causa ed effetto della pena, non solo la privazione della libertà.
Il direttore di Venezia Santa Maria Maggiore, che abbiamo visitato di recente, ha detto che ben altro ci vorrebbe che una liberazione anticipata speciale, che con Rita Bernardini e Roberto Giachetti stiamo proponendo al parlamento per ridurre il carico intollerabile di corpi e di dolore che grava sulle carceri. Come premio minimo per la buona condotta che hanno tenuto i carcerati nella condizione di degrado cui sono stati costretti non per un giorno, non per un mese, non per un semestre ma per anni!
Ripeto: beati i costruttori di pace e di speranza nelle carceri. Non solo i detenuti, ma anche i detenenti. Formati sui principi e le regole della riforma carceraria, direttori, educatori e poliziotti penitenziari si sono votati a fare di più del proprio mestiere: non solo sorvegliare ma anche curare, non solo custodire ma anche confortare, essere pure un po’ infermieri, un po’ medici, un po’ psicologi, un po’ psichiatri.
“Despondere spem munus nostrum”, è il motto del corpo della polizia penitenziaria. “Spes contra spem”, è il motto nostro. La loro e nostra semina di speranza in un istituto dove regna la disperazione, la loro e nostra opera di misericordia corporale nei luoghi dove si infligge la pena corporale, ha sicuramente contribuito in questi anni nelle carceri del nostro Paese a salvare molte vite. Dalla solitudine e dal crepacuore, dall’angoscia e dall’impiccagione.

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