STEFANO È EVASO A SUO MODO DA UN LUOGO DI PENA, DI CUI DOBBIAMO LIBERARCI SE VOGLIAMO ESSERE UMANI
10 gennaio 2024: Sergio D’Elia
Un altro essere umano ha deciso di evadere a suo modo dal luogo dove l’umanità è violata, umiliata, degradata al rango di nullità esistenziale. Perché, così è, questo diventi: varcata la soglia di un carcere, tu semplicemente non esisti. Mi viene da piangere a leggere la storia di Stefano Voltolina, il giovane veneziano di 26 anni che si è ucciso lunedì scorso nel carcere Due Palazzi di Padova. Ne ha dato notizia “Ristretti Orizzonti”, la benemerita associazione che tiene conto dei “morti in carcere”, tramite suicidio o per cause dette naturali, semmai è possibile definire “naturale” e non criminale la morte in carcere di un essere umano. Mai era accaduto nella storia del nostro Paese che in un anno, il 2022, ben 84 detenuti si togliessero la vita. Nell’anno appena passato sono stati 68. Stefano Voltolina è stato trovato morto nella sua cella dove era arrivato ad agosto, trasferito da un altro carcere per scontare una pena per violenza sessuale. Li chiamano “sex offender” i detenuti come lui, li tengono in “sezioni protette”, condannati non solo alla pena prevista dal codice dello Stato ma anche alla “pena di infamia” suppletiva inflitta in base al codice morale carcerario a quelli che si sono macchiati di reati cosiddetti di “riprovazione sociale”. In carcere Stefano ci sarebbe rimasto fino al 2028, un tempo infinito da passare in un luogo di pena, bandito dallo Stato e bandito anche dall’anti-Stato. All’associazione “Ristretti Orizzonti” ha scritto una bella lettera la volontaria Manuela Mezzacasa, insegnante, che per due anni alle scuole medie lo aveva avuto allievo. Volontaria di Granello di Senape-AltraCittà presso la biblioteca della reclusione Due Palazzi, racconta che l’ultima volta lo aveva intravisto che camminava mestamente davanti a lei nel corridoio accompagnato da un agente. L’aveva riconosciuto dalla camminata e dalla figura, piuttosto massiccia. Raggiunto in biblioteca l’avevano colpita lo sguardo e il modo di muoversi di un ragazzo taciturno che le aveva fatto tornare in mente un suo alunno delle medie di tanti anni prima. Lo ricordava adolescente affidato a una casa famiglia del Villaggio S. Antonio di Noventa Padovana, un caso impegnativo, secondo0 Manuela: mai frequentato regolarmente la scuola, nessuna idea di cosa fosse un qualsivoglia regolamento. Alla fine dell’anno Stefano era stato bocciato dalla scuola, prima ancora era stato “bocciato” dalla famiglia. I genitori gli volevano bene ma non ce la facevano a stargli dietro: suo padre era pescatore a Chioggia, la madre aveva altri figli a cui badare. Il suo mondo, racconta oggi Manuela, era il mare e un cantiere di sfasciacarrozze dove, invece di andare a scuola, passava le giornate con una banda di ragazzini. Il suo desiderio era di tornare a Chioggia, i suoi progetti la musica e la scrittura. Invece, è finito in carcere, dove non si vede il mare, dove il sole è sempre triste. Manuela è rammaricata perchè non è riuscita a salvarlo. “Abbiamo fallito, come altre volte. Facciamo almeno qualcosa per non dimenticarcelo, il nostro fallimento. Di lui, di Stefano, io non mi potrò mai dimenticare.” È quel che cerchiamo di fare con Rita ed Elisabetta e i nostri compagni di “viaggio della speranza”, gli iscritti a Nessuno tocchi Caino, gli avvocati delle Camere Penali e del Movimento Forense, i magistrati, i volontari, i garanti, gli esponenti di associazioni ed eletti nelle istituzioni. Con loro, l’anno scorso, abbiamo visitato 120 istituti penitenziari per conoscere e cercare di risolvere i problemi che quotidianamente affliggono la comunità penitenziaria, non solo la comunità dei detenuti, ma anche quella dei “detenenti”, come li chiamava Marco Pannella. È un’opera cristiana di misericordia corporale quella del “visitare i carcerati”. Ma è anche una pena infinita “visitare i carcerati”, sottoposti come sono alle pene corporali e a tutti quei trattamenti inumani e degradanti di cui ci siamo liberati nella storia della civiltà umana: la tortura, la pena di morte, il manicomio, il lazzaretto. Sistemi che via via abbiamo abolito ma poi abbiamo concentrato in un luogo solo: il carcere. Non dimentico – e gli chiedo scusa per questo ricordo pubblico – il volto di Piero che, rifugiato in disparte in un angolo del carcere di Turi questa estate, mi disse “Sergio, non ce la faccio”. Aveva gli occhi tristi e umidi, non per l’emozione della fermata nella stanza dove fu carcerato Antonio Gramsci, il fondatore del suo giornale, ma per la sofferenza del vedere, nelle stazioni del calvario che ogni visita è, le celle stipate di poveri cristi carcerati, “carcati”, sotterrati, tumulati in quei “cimiteri dei vivi” come Filippo Turati chiamava le carceri. Li chiamiamo – quasi senza farci caso ma intendendone la vera natura – luoghi di pena, istituti penitenziari. Perché quello sono: strutture di morte, concettualmente, ideologicamente, meccanicamente dedite alla tortura e al patimento corporale, mentale e spirituale; apparati di vendetta volti a ripagare la violenza e il dolore arrecati dal delitto con la violenza e il dolore inflitti dal castigo. Non è una consapevolezza maturata oggi quella di ciò che è il carcere, cioè uno spazio fuori dal mondo, un tempo fuori dal tempo, un istituto anacronistico, inutile, patogeno e criminogeno. Già nel 1949, Altiero Spinelli sulla rivista “Il ponte” scriveva: «Più penso al problema del carcere e più mi convinco che non c’è che una riforma carceraria da effettuare: l’abolizione del carcere penale». Ancor prima, nel 1904, in un memorabile discorso alla Camera dei Deputati, lo stesso Filippo Turati diceva: «Noi crediamo di aver abolita la tortura, e i nostri reclusori sono essi stessi un sistema di tortura la più raffinata; noi ci vantiamo di aver cancellato la pena di morte dal codice penale comune, e la pena di morte che ammanniscono a goccia a goccia le nostre galere è meno pietosa di quella che era data per mano del carnefice». Non è una storia di duemila anni fa – Spes contra spem, la speranza secondo la lettera di San Paolo ai Romani; “Visitare i carcerati”, l’opera di misericordia secondo il Vangelo – ciò che come Nessuno tocchi Caino abbiamo fatto vivere in questi anni nei luoghi dove albergano anime in pena e vite senza speranza. Non è solo questo, è anche una scoperta della fisica del secolo scorso. Che l’osservatore muta l’oggetto della sua osservazione… Per il solo atto di osservarlo, lo muta. Vale anche per il carcere, per la mortifera situazione delle carceri. Quanto più la osserviamo, tanto più la mutiamo. Ma tanto più la mutiamo, tanto più mi convinco che ha ragione Altiero Spinelli, che non c’è che una riforma carceraria da effettuare: l’abolizione del carcere penale. E che bisogna cambiare il vecchio adagio: se vuoi misurare la civiltà di un paese, entra nelle sue carceri. No, se vuoi misurare la civiltà di un paese, bisogna uscire dalle carceri, uscirne culturalmente, concettualmente, radicalmente. E uscirne radicalmente, vuol dire superare il sistema di giudizio. L’ultimo dell’anno siamo stati in visita al carcere di Parma. Lì, un detenuto si è presentato al nostro Laboratorio “Spes contra spem” con un giornale sotto il braccio. “Se fosse vivo, anche Gesù scriverebbe su l’Unità”, ha detto. Ha colto, a proposito dei delitti e delle pene, nella linea editoriale di questo giornale, una visione più radicale di quella di Cesare Beccaria. La visione dell’Antico Testamento: Nessuno tocchi Caino! La visione del Nuovo Testamento: Non giudicare! Sono queste le nostre parole d’ordine, più umane e civili di molti testi e trattati contemporanei sui diritti umani e civili.
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