AL 41-BIS SI STA AD ASCOLTARE IL SILENZIO E AD ASPETTARE IL NIENTE
26 novembre 2023: Maria Brucale su L’Unità del 26 novembre 2023
C’è un non luogo dove il diritto non entra. Dove la vocazione costituzionale di ogni pena al trattamento, alla rieducazione e alla restituzione sono sospesi con un provvedimento ministeriale per un tempo indeterminato, infinito. Uno spazio liquido e informe in cui la sanzione è mera afflizione e il detenuto interrompe la sua essenza di uomo, veste i panni del suo crimine, è il suo crimine e nient’altro. Non incontra educatori, psicologi, criminologi. Nessun operatore del carcere predispone per lui una relazione di sintesi né un magistrato di sorveglianza approva il programma trattamentale. Non c’è proiezione di futuro al 41 bis tanto più a fronte della nuova legge, n. 199 del 2022, che esclude per chi è ristretto in quel regime ogni accesso a misure alternative o a benefici premiali. Nel tempo la Corte costituzionale ha ribadito più volte che le limitazioni e la sospensione del trattamento intramurario sono ammissibili solo se finalizzate in concreto alla sicurezza sociale. Il Comitato di prevenzione della tortura del Consiglio europeo, già nel novembre 2013 aveva intimato all’Italia di adottare le misure necessarie per assicurare che tutti i detenuti sottoposti al regime di cui all’art. 41 bis potessero usufruire di una più vasta gamma di attività mirate, trascorrere almeno 4 ore al giorno al di fuori delle proprie celle, insieme agli altri detenuti presenti nella stessa sezione; accumulare le ore di colloquio a loro spettanti di diritto e non utilizzate; telefonare con maggiore frequenza, indipendentemente dal fatto che avessero o meno effettuato il colloquio mensile. Ancora, aveva censurato la frequente soggezione a videosorveglianza permanente; l’esistenza di ulteriori restrizioni nelle c.d. sezioni di area riservata rispetto alla possibilità di incontro con altri detenuti; la mancanza di luce e aria adeguate in ragione della apposizione alle finestre di schermature in plexiglass. Le raccomandazioni del C.P.T. rinnovate di anno in anno sono però rimaste pressoché inattuate e la carcerazione in regime derogatorio rimane un trattamento inumano e degradante che lede la dignità della persona. Dignità, un bene che a tutti appartiene, che è al cuore del sistema ordinamentale e che non può esistere in una vita sottratta alla progettualità, all’aspettativa di un domani, del recupero, della restituzione. Il regime derogatorio si applica indistintamente anche a persone in custodia cautelare. Indagati o imputati e, dunque, presunti innocenti che magari verranno assolti e torneranno in libertà spezzati, dopo aver subito una carcerazione di massima afflizione. I ristretti in regime di 41 bis sono collocati in luoghi sempre distanti dal loro contesto di origine. Incontrano i propri congiunti per un’ora al mese, dietro a un vetro divisorio antiproiettile a tutta altezza, in ambienti piccoli e angusti, spesso sporchi. Possono sostituire il colloquio con una telefonata di dieci minuti per effettuare la quale i familiari devono recarsi in un carcere. I minori di dodici anni possono toccare il genitore recluso al di là del vetro. Il passaggio avviene allontanando i familiari che lo accompagnano. Sono momenti di grave trauma emotivo per il fanciullo che vive con orrore e paura l’incontro con il proprio congiunto in carcere. Uno strazio senza fine che nega ai bambini ogni continuità di amore. È contratto l’accesso alla lettura, all’informazione, alla cultura. Non solo perché il detenuto deve utilizzare, per acquistare libri e giornali attraverso l’amministrazione penitenziaria, il denaro di cui dispone personalmente all’interno dell’istituto rinunciando ad altri piccoli generi di conforto ma anche perché spesso si vede opporre un rifiuto per l’asserita irreperibilità di quanto richiesto. La corrispondenza è soggetta a censura. Le lettere dei propri cari sono tutto in 41 bis, il solo mezzo per parlarsi, per restare vicini, in contatto, per non perdere del tutto l’approccio alla quotidianità del proprio ambito familiare. Ma si deve prestare attenzione a non usare espressioni non immediatamente leggibili, che possano essere fraintese. Contenere l’anima, la distanza, le emozioni in parole povere, accorte, spoglie, mancanti di immagini e colori. Così il filo si spezza e nelle lettere si scrive il meno possibile, ci si limita a comunicazioni minime e si lascia fuori il racconto, la storia, il vissuto e l’amore si relega alla dimensione del ricordo, al concetto sempre più astratto di famiglia, se resiste. E chi è in carcere, in 41 bis, resta solo ad ascoltare il silenzio, ad aspettare il niente.
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