LA BATTAGLIA DI WANDAYI: CANCELLARE TRE PAROLE PER CAMBIARE IL KENYA
16 luglio 2023: Sergio D’Elia su L’Unità del 16 luglio 2023
James Opiyo Wandayi è arrivato al seggio della più alta assemblea del Kenya a nome del piccolo collegio elettorale di Ugunja, una città di 17.000 abitanti nella contea di Siaya che campa sulla coltivazione di sorgo, patate e manioca. Per rappresentare al meglio la sua terra si era formato come economista del settore agricolo, ma poi alla camera dei deputati ha fatto qualcosa di meglio degli interessi agricoli dei suoi elettori. Da leader della coalizione di minoranza, per cambiare la faccia del Paese, si è dedicato principalmente alla tutela dei diritti umani e dello stato di diritto, al miglioramento della qualità della vita democratica del Kenya. Una volta è stato espulso dal Parlamento per aver interrotto con un fischio prolungato il discorso sullo stato della nazione del Presidente Uhuru Kenyatta, figlio del primo Presidente del Kenya post-coloniale, Jomo Kenyatta. Wandayi aveva contestato il provvedimento di espulsione davanti all’Alta corte che gli ha dato ragione ordinando che gli fosse consentito di tornare alla Camera perché altrimenti il suo elettorato non sarebbe stato rappresentato. Rappresentato in quali interessi? Non certo in quelli agricoli. La sua missione parlamentare era volta alla affermazione della vita del diritto per tutelare appieno il diritto alla vita nel suo Paese. Il suo disegno di legge di riforma penale è molto semplice: sostituire tre parole, “pena di morte”, con una sola: “ergastolo”. Il deputato del piccolo centro agricolo di Ugunja è convinto che l’abolizione della pena capitale farà diventare grande il suo Paese. Aiuterà il Kenya a preservare il diritto fondamentale alla vita che anima la sua Costituzione, ha detto Wandayi alla Commissione Giustizia e Affari Legali chiamata a esaminare la proposta prima del passaggio al voto del Parlamento. Porrà fine a trattamenti e punizioni crudeli, inumani e degradanti delle persone condannate in attesa della morte. A scanso di equivoci, Wandayi ha proposto alla commissione di cancellare dall’ordinamento penitenziario anche l’articolo sul metodo di esecuzione in cui si afferma che, quando una persona viene condannata a morte, deve essere impiccata per il collo fino al suo ultimo respiro. Tutti i membri della Commissione hanno sostenuto la proposta di Wandayi, eccetto Jane Njeri, rappresentante di Kirinyaga. “Dobbiamo rafforzare e attivare la pena di morte. Chi ruba o uccide dev’essere impiccato, occorre fare di una persona un esempio. Devono esserci equivalenza ed estreme conseguenze per l’atto compiuto.” Wandayi ha replicato che la pena di morte va messa al bando, non solo perché costituisce una violazione del diritto alla vita, “senza il quale non si possono godere altri diritti”, ma anche perché può far apparire normale che si uccidano esseri umani. Significa insegnare che la violenza e la morte sono un modo accettabile di affrontare reati gravi. “Un modo di pensare che abbassa lo Stato alla mentalità dell’assassino.” La frase “pena di morte” era stata cancellata con la nuova Costituzione del 2010, lasciando l’ergastolo come la più severa forma di punizione. Ciò nonostante, ferma restando nei codici, i tribunali hanno continuato a condannare alla forca. Dal 2011, 6.058 prigionieri sono stati rinchiusi nel braccio della morte, non solo autori di omicidio ma anche di rapina o tentata rapina a mano armata. Ogni giorno e per anni hanno vissuto con la mente tormentata dallo spettro del boia. “La pena di morte non solo priva il prigioniero di ogni traccia di dignità umana, ma è anche la profanazione dell’individuo come essere umano. Pertanto, deve essere abolita dalla legge keniota con la massima urgenza”, ha concluso il legislatore di Ugunja. La vita dei condannati a morte è stata risparmiata per quarant’anni da una moratoria di fatto delle esecuzioni e dalla bontà di capi di stato che hanno temperato con la grazia la giustizia del Kenya. Nell’agosto 2009 il defunto Presidente Mwai Kibaki aveva commutato in ergastolo 4.000 condanne a morte. Nell’ottobre 2016 l’allora Presidente Uhuru Kenyatta ha svuotato il braccio della morte dei suoi 2.747 abitanti. Dalla pena di morte alla pena fino alla morte – uno potrebbe pensare – il risultato non cambia. Ma tra l’una e l’altra, v’è una differenza fondamentale che sta nella virtù propria del tempo e della speranza. La virtù del tempo che scorre e scolpisce una nuova vita. La virtù della speranza che si incarna, oltre ogni ragionevole speranza, nella mente e nel cuore dei condannati e, per risonanza, anche nella mente e nel cuore dei loro supremi giudici. Questo articolo non racconta solo una storia di un altro mondo, è anche un appello all’Italia, all’Europa, al nostro mondo. Aiutiamo il piccolo deputato di Ugunja a fare grande il Kenya. Spes contra spem!
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