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FERMIAMO IL CAVALLO IMBIZZARRITO CHIAMATO ‘SISTEMA PENALE’

4 giugno 2023:

Diego Mazzola su L’Unità del 4 giugno 2023

Un poco alla volta, come quelle poche stelle che si vedono sbucare da un cielo nero in tempesta, si fa strada l’ipotesi abolizionista del sistema penale e con esso del modello retributivo/punitivo. Che sia la fine della vendetta di Stato intesa come Giustizia? Stiamo forse pensando di rottamare la legge “dell’occhio per occhio e dente per dente”, che risale a 1750 anni a. C. e che è conosciuta come Codice di Hammurabi?
Le coscienze si aprono all’ipotesi della nonviolenza nella costruzione della società aperta, moderna e liberalmente intesa, se non fosse per l’incedere del populismo penale e non solo. E siccome pare proprio che ti credano solo se dici qualcosa di negativo, ecco il ritorno dell’idea di chiudersi alla solidarietà con il blocco dei porti e con la messa in atto di nuovi restringimenti. Intendiamo, cioè, negare ad altri popoli ciò che ci è garantito dalla nostra Costituzione. Aspettiamo, dunque, i tempi migliori, come quelli in cui ci farà di nuovo orrore il veder marcire in galera degli esseri umani o quello di trattenere in galera anche dei bambini innocenti e così via.
Ma quando le cose potranno cambiare? Solo quando il Parlamento e la “politica” avranno conosciuto il pensiero di Nils Christie, di Louk Hulsman, di Thomas Mathiesen e soci. Essi auspicavano un rapporto molto più sano tra Stato e cittadino e una più morale attenzione delle Istituzioni. Ricordo che, durante una delle mie visite a San Vittore, un detenuto me ne indicò un secondo, che era appena stato ri-carcerato e al quale “avevano lasciato” il posto nella stessa cella dalla quale era uscito solo due giorni prima. L’uomo in questione era sulla settantina, molto modestamente vestito, barba incolta, vecchia camicia col colletto sporco di sangue, insomma il ritratto più vero di un nullatenente. La persona in questione non aveva casa, lavoro, parenti. Il carcere era la sua famiglia, il luogo in cui vivere.
Un doveroso ricordo va dato anche a Ruth Wilson Gilmore, “abolizionista” convinta, che nel 1998 insieme ad Angela Davis e uno sparuto gruppo di persone fondarono la “Critical Resistance”, un’organizzazione con sede negli Stati Uniti che si è posto in testa di smantellare quello che chiama il complesso carcerario-industriale. Oggi quelle attiviste riescono perfino a fermare, legalmente e in modo nonviolento, la costruzione di nuove carceri.
Forse quando ci si troverà tra le mani un progetto transnazionale per l’affermazione di quel benedetto Diritto, soprattutto quello dei soggetti più emarginati, quando si sarà capito che bisogna prendersela con i motivi che inducono al fatto/reato più che con la persona, le cose potranno cambiare.
Che cosa accadrà, allora, dei tanti magistrati e dei tanti avvocati, che oggi traggono la propria ragion d’essere dal casino in cui versano l’Ordinamento ed il sistema giustizia? Essi temono, forse, di perdere il lavoro? Il compianto professor Hulsman dall’Olanda ci disse, largamente motivando, che: «Se dunque si abolisse il sistema penale, la maggior parte di quelli che partecipano attualmente al suo funzionamento continuerebbero ad avere assicurata un’attività, con uno statuto morale più elevato. Fermiamo dunque il cavallo imbizzarrito… Nella mia mente, abolire il sistema penale significherebbe riconsegnare alla vita comunitaria, istituzioni e uomini». Qual è il rischio: che si facciano meno processi? Intanto siamo ancora in attesa di una vera riforma del lavoro, che adempia senza esitazione al dettato costituzionale che ne ha sancito il Diritto e al ripristino delle Borse Lavoro.
Parafrasando Hulsman si dirà che «È giunta l’ora di abolire il giochetto del crimine e della punizione e sostituirlo con un paradigma di restituzione e responsabilità. L’obiettivo non è solo la civilizzazione del trattamento di chi infrange le regole, ma anche quello di dare un significato più profondo e più proficuo al rapporto tra le Istituzioni e i cittadini».
Che fare, dunque, per fermare il “cavallo imbizzarrito”? E affermare la Riforma del Sistema Giustizia coerente sotto le bandiere della nonviolenza? Perché escludere a priori la via “rivoluzionaria” della ricerca – che fu di Gustav Radbruch e di Aldo Moro – “non di un diritto penale migliore ma di qualcosa di meglio del diritto penale”?
Pena è ciò che si prova di fronte alla sofferenza di animali o persone, per l’appunto sofferenti, ma se è provocata a terzi è solo “tortura”. Perché confidare nella sofferenza e nella punizione – in qualche modo nella tortura legale – di coloro che hanno trasgredito alle regole, quando si può far leva sul concetto di “dignità personale” in un progetto di reinserimento consapevole nel tessuto sociale, magari mettendo finalmente a tacere la Bossi-Fini e la Fini-Giovanardi?
Perché non dedicare molta più attenzione verso il mondo della cultura violenta, contrastandola con una più completa informazione sulle possibilità che hanno le legalizzazioni e la politica della riduzione del danno, per riconsegnare alla vita comunitaria istituzioni e uomini?

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