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TORNA LA FORCA IN BIRMANIA, MA L’ODIO NON E’ LA RISPOSTA

28 luglio 2022:

Sergio D’Elia su Il Riformista del 28 luglio 2022

Alla fine l’imperativo “ordine e disciplina”, che per ottanta anni – manu militari – ha dominato la vita dei birmani, ha raggiunto l’apice della violenza e della morte di Stato, di uno Stato che nel nome di Abele è diventato Caino.
Dopo il colpo del gennaio 2021, la giunta militare si è dedicata alla repressione cruenta delle manifestazioni antimilitariste, ai processi farsa nei tribunali militari e alle condanne a morte per reati detti di “terrorismo” ma talmente vaghi e vasti nella definizione da poter includere qualsiasi critica al regime militare. Così, in un anno e mezzo, più di 2.100 persone sono state uccise per strada dalle forze di sicurezza; almeno 117 sono state condannate a morte da tribunali militari.
Dopo le condanne a morte sono arrivate anche le esecuzioni. Il 25 luglio scorso, come promesso, i militari hanno giustiziato quattro prigionieri politici, tra cui due figure molto popolari in Birmania, simboli per l’opinione pubblica della fiera resistenza al regime militare.
Kyaw Min Yu era meglio conosciuto come “Jimmy” ed era diventato famoso durante la rivolta studentesca del 1988 contro il precedente regime militare. Per il suo attivismo a favore della democrazia era entrato e uscito di prigione per una dozzina di anni. Era stato arrestato di nuovo lo scorso ottobre, all’età di 53 anni, durante un raid notturno.
Phyo Zeya Thaw era stato eletto al parlamento nel 2015, alle elezioni che avevano inaugurato un periodo, purtroppo, breve di transizione al governo civile. Era un fedele alleato di Aung San Suu Kyi, ma era anche noto come un artista hip-hop. Le sue rime “sovversive” davano fastidio alla giunta militare che lo aveva messo in prigione nel 2008 per appartenenza a un’organizzazione illegale.
Insieme ad altri due uomini, Hla Myo Aung e Aung Thura Zaw, tra gennaio e aprile, erano stati condannati a morte da un tribunale militare in processi illegali svolti segretamente. Avrebbero compiuto “atti terroristici brutali e disumani come l’omicidio di molte persone innocenti”, secondo la voce del regime, il quotidiano in lingua inglese Global New Light of Myanmar.
Sono stati giustiziati “secondo le regole carcerarie” hanno detto le autorità militari, senza dire però dove, quando e con quale metodo. Forse sono stati impiccati, se è stato seguito il metodo consueto e ormai in disuso nel Paese dopo oltre trent’anni di moratoria di fatto delle esecuzioni. Di certo è stato un atto di assoluta crudeltà volto a paralizzare il movimento di resistenza civile ai militari che un anno fa, col colpo di stato, hanno spento la luce in Birmania, seminato il terrore e fatto terra bruciata delle speranze di democrazia, giustizia e libertà.
Ai famigliari che, appresa la notizia dai giornali, si erano precipitati davanti alla prigione non è stato permesso di raccogliere i resti dei loro cari per dargli una degna sepoltura. “Li hanno uccisi e hanno occultato i cadaveri”, come fanno gli assassini comuni per coprire i loro crimini, ha detto Thazin Nyunt Aung, moglie di Phyo Zeyar Thaw.
I parenti dei condannati erano andati alla prigione Insein di Yangon anche la settimana prima per fare loro visita, ma i funzionari della prigione hanno permesso a un solo parente di parlare con i detenuti tramite videochiamata. Era il segno che quello sarebbe stato il loro ultimo colloquio.
Alla violenza del potere costituito in disordine, alla disciplina ordinata dalla paura, i familiari dei detenuti hanno risposto con il coraggio, la determinazione, la forza della nonviolenza. “Dobbiamo essere tutti coraggiosi, determinati e forti”, ha scritto Nilar Thein, la moglie di Kyaw Min Yu, in un post pubblicato su Facebook. È la forza degli inermi. È la forza gentile della nonviolenza, di chi non ha potere, ma non smette di lottare, di chi ama comunque, con speranza e contro ogni speranza, il proprio avversario disperato. E con ciò lo disarma.
Un anno fa, una piccola suora, genuflessa dinnanzi alla polizia, riuscì almeno per un giorno a far tacere le armi e bloccare la legge marziale. In quella giornata felice, la nonviolenza dell’amore, della buonafede e della speranza trionfò sull’odio, la malafede e la disperazione del disordine costituito. Ora, in questa giornata triste in cui sembra trionfare invece la prepotenza e la morte della pena, non malediciamo, non criminalizziamo, non condanniamo a morte questi torturatori di vite umane ed esecutori di sentenze capitali. Torniamo a inginocchiarci davanti a loro e a invocare, innanzitutto per loro, non sanzioni e stati di emergenza, ma l’emergenza di stati di coscienza, di diritto, di umanità. Il nostro “Nessuno tocchi Caino” vale anche per loro.

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