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IN 31 ANNI DI GALERA NEPPURE UN’ORA DI LIBERTÀ. UNA PENA ETERNA È DISUMANA

1 febbraio 2025: Filippo Rigano* su l’Unità del 1° febbraio 2025

Sono un ergastolano “ostativo” che alberga ininterrottamente nelle patrie galere dal 1993 del secolo scorso. Eh sì, perché bisogna fare i conti anche con il tempo che macina gli anni della vita fino alla vecchiaia, e alla morte. Quando ho varcato le porte del carcere, di anni ne avevo 36, oggi ne ho 68. Sapevo a malapena leggere e scrivere, come titolo di studio avevo soltanto la seconda elementare. Il 23 ottobre 2019, nel teatro del carcere di Rebibbia, sono riuscito a laurearmi in giurisprudenza con lode dell’Università di Tor Vergata. Ho dimostrato progressi nello studio, nel lavoro, nel senso critico del passato per cui sto scontando la mia pena. Nonostante ciò non riesco a respirare neanche un’ora di libertà. Per la legge non dovrei essere più un “ergastolano ostativo”, un “fine pena mai”. Come tanti altri, sono un ergastolano che aspetta.
Nel carcere di Rebibbia, nella sezione di alta sicurezza, il magistrato e il tribunale di sorveglianza non concedono benefici penitenziari da anni. Nessun detenuto riesce a ottenere un permesso premio o la semilibertà. Io ho presentato istanza di permesso nel lontano giugno 2020, dopo 31 anni di detenzione.
Il magistrato ha deciso e notificato il rigetto il 7 luglio 2024, dopo quattro anni e due mesi dalla richiesta e tanti solleciti.
La direzione distrettuale antimafia (DDA) aveva espresso parere contrario con le solite frasi. La cosca è ancora attiva. Si può dedurre che sia ancora legato. Essendo libero potrebbe riorganizzare. Non si esclude il pericolo di ripristino dei collegamenti… Un parere negativo privo di ogni profilo di attualità e senza tener conto del percorso rieducativo intrapreso nei lunghissimi anni di carcerazione. I giudici si accodano e rigettano. La stessa decisione ha preso il tribunale di sorveglianza di Roma. Addirittura criticando pure l’area educativa che aveva stilato una “relazione di sintesi” positiva.
Oltretutto, con questo orientamento: se la persona detenuta non viene declassificata dal circuito di alta sicurezza a quello di media sicurezza, non gli spetta niente, deve solo aspettare. E siccome non declassificano mai nessuno, tu non esci mai.
Capisco la portata del fenomeno mediatico nel caso in cui un ergastolano, dopo aver scontato quarant’anni di carcere, esce grazie a un beneficio premiale. I mezzi di informazione amplificano alcune voci presenti nella società e scatenano un putiferio per la decisione del giudice di turno, e danno vita a una campagna di disinformazione con la quale alimentano paura e in sicurezza tra la gente. Allora, i giudici di sorveglianza non concedono nulla e, probabilmente, lo fanno per non creare precedenti, ma facendo così creano un danno all’individuo e al diritto. Così, l’articolo 27, comma tre, della Costituzione va a farsi benedire.
Io ho rivisitato completamente il mio vissuto. Ho fatto tutto per dimostrarlo, ho trovato il coraggio di prendere le distanze da quel passato buio, dalle vecchie logiche e da qualsiasi forma di criminalità. La logica imporrebbe la necessità di valutare la persona per quello che è oggi e non per quello che è stato ai tempi delle sue azioni. La persona nuova che è divenuta, è conosciuta dall’equipe trattamentale dell’Istituto, non dalla DDA che conosce semmai quella di trent’anni addietro, e pensa sia sempre la stessa. Se i magistrati e i tribunali di sorveglianza non concedono benefici a detenuti con sintesi trattamentali positive fatte da tutti gli operatori carcerari, si registra un vero fallimento del reinserimento nella vita sociale del detenuto, ma soprattutto un fallimento costituzionale, quello della funzione rieducativa della pena. Questo succede perché non si crede fino in fondo alla rieducazione del condannato. Bisogna credere invece alla rieducazione e avere mo lto più coraggio nel dare fiducia e credito all’individuo che abbia dimostrato nella pena un radicale cambiamento nel senso del rispetto delle regole della Comunità, mettendolo alla prova.
La nostra Costituzione è improntata al principio di umanità e reinserimento sociale del detenuto. Che senso di umanità dimostra uno Stato che ha in mente forme punitive eterne. L’eterno non è umano, e una pena eterna non può essere che disumana. L’assoluto insito nel concetto di perpetuità ci allontana da ciò che intendiamo con la parola democrazia. La rieducazione non è un termine vuoto, privo di senso, ma il contenuto di una vita intera della persona detenuta che nella pena recupera sé stessa, specialmente quando ha capito gli errori del passato e dal male si è catapultata nel bene.
Ho trascorso 31 anni di vita in carcere per il peso gravoso dei miei reati e delle condanne riportate, ma nessuno, in nessun tempo, può arrogarsi il diritto di negare per sempre la libertà al suo prossimo.
* Detenuto nel carcere di Rebibbia

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