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TRADITO IL CARCERE DELLA COSTITUZIONE, È STATO TRASFORMATO IN UNA GABBIA DI MATTI

29 dicembre 2024:

Cesare Burdese su l’Unità del 28 dicembre 2024

Ho visitato di recente la Casa circondariale La Dogaia di Prato in compagnia di esponenti di Nessuno tocchi Caino, avvocati della Camera penale, rappresentanti delle istituzioni locali e persone impegnate in attività di volontariato in carcere.
Non tornavo a Prato dal 1988, quando ero stato al Centro per l'Arte Contemporanea Luigi Pecci, reduce da un convegno sul rapporto del carcere con la città, alla presenza del grande architetto toscano Giovanni Michelucci ed esponenti della Fondazione che porta il suo nome. Allora erano passati grossomodo 13 anni dal varo della riforma dell'Ordinamento penitenziario e 2 da quello della legge "Gozzini", due strumenti giuridici incentrati sul concetto di pena finalizzata alla risocializzazione del condannato. In quel convegno venne denunciata l’inerzia con la quale i due provvedimenti legislativi erano attuati e quanto poco si fosse avviato. La conclusione era che il carcere continuava di fatto a essere quello di sempre: un luogo di emarginazione, di condanna all’ozio ed alla perdizione e dove la Costituzione veniva quotidianamente tradita.
A distanza di decenni, mi ritrovo a sentire e dire le stesse cose. Rifletto su come due realtà tanto diverse tra loro, il Luigi Pecci e La Dogaia, ma pur sempre inserite nello stesso contesto socio culturale che nei decenni si è evoluto, possano avere avuto sorti tanto contrapposte. La prima ha seguito le dinamiche di una società in evoluzione, adeguandosi di volta in volta, certamente anche nella sua dimensione spaziale, allo spirito del momento, la seconda quasi è rimasta immobile, dentro un edificio immutato dalle origini, concepito per contenere e incapacitare.
Il carcere, refrattario ai cambiamenti, è condannato ad avere una duplice identità: quella ideale della norma e quella reale manifestata dai fatti. È con quella reale, sempre vincente su quella ideale, che nelle carceri che visito mi ritrovo a confrontarmi sugli stessi motivi. Resta il fatto che ogni visita sia per me sempre un evento unico, foriero di emozioni, riflessioni e stimoli. La visita a La Dogaia mi porta a rimarcare, per l’ennesima volta, la contraddizione della presenza in carcere di detenuti dipendenti da sostanze di ogni tipo e con disagio psichico e di detenuti condannati all’ozio forzato nella loro quotidianità di assenza di significativi contatti umani, il tutto in un contesto materiale inadeguato e degradato e con carenza di mezzi e di personale.
La maggioranza dei detenuti presenti a La Dogaia ha comportamenti problematici, difficilmente gestibili da poliziotti penitenziari nuovi assunti, freschi di studi e inesperti. Un quadro desolante che rafforza in me la convinzione del tradimento reiterato nei confronti della pena costituzionale e dei principi della pena riformata. A La Dogaia mi sono imbattuto in due detenuti che lo fotografano: uno che dice di essere un bluetooth con il quale i suoi compagni detenuti possono interloquire e uno ergastolano, che ci ha urlato la condizione di ozio forzato che, contro la sua volontà, è costretto a vivere.
Il primo vive insieme agli altri, molti come lui, in una sezione invasa dalle cimici, costretto a dormire su di un materasso infestato dalle zecche in lenzuola che vengono cambiate ogni tre mesi, dove nel bagno l’impianto idrico è dotato di sola acqua fredda, senza doccia anche se prevista dalla norma del 2000, e il vitto giornaliero insufficiente rispetto alle presenze.
Il secondo vive in una delle due sezioni ad alta sicurezza presenti a La Dogaia, insieme ad altri quarantanove detenuti, potendo deambulare per otto ore al giorno fuori della cella da due, ma condivisa con altri due. Gli spazi a sua disposizione, oltre la cella con il wc dove si cucina, sono un lungo corridoio sul quale si affacciano le celle e che porta a una stanza disadorna, denominata pomposamente “stanza della socialità”. All’aperto egli dispone di un cortile tutto cementato dove poter trascorrere le ore d’aria.
La maggior parte del tempo la vive al chiuso, in locali anonimi e malamente arredati quando lo sono, per lo più illuminati artificialmente e con affacci fortemente limitati sull’esterno; il colore dove presente è quello del carcere, il verde una chimera. Il detenuto lamenta il fatto di non avere l’opportunità di formazione lavorativa o di lavoro, in questo modo costretto come è a vivere unicamente la sua quotidianità nell’ambiente limitato e circoscritto della sezione detentiva. Con rimpianto ci ha evocato gli anni di quando era detenuto in un carcere spagnolo dove la sua giornata era molto movimentata. La mattina usciva dalla sua cella, per andare a lavorare altrove nel carcere, per ritornarci la sera per dormire.
Sono uscito da La Dogaia con la sensazione di essere uscito da un fossile, una “terra di lacrime” per detenuti e detenenti, accomunati dalla stessa sorte.

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