SINGAPORE, GIUSTIZIATO PER LA CANNABIS SENZA POTERSI DIFENDERE

Tangaraju Suppiah (Twitter)

29 Aprile 2023 :

Piero Zilio* su Il Riformista del 28 aprile 2023

Negli ultimi 30 anni, il sole del venerdì non è mai sorto per le oltre 500 persone impiccate nella prigione di Changi a Singapore. Venerdì era il giorno del boia. Ma l’anno scorso qualcosa è cambiato. I familiari dei condannati a morte hanno cominciato a ricevere le notifiche di esecuzione in un qualsiasi giorno della settimana. È stato così anche per Leela Vathy, sorella di Tangaraju s/o Suppiah. Suo fratello è stato giustiziato mercoledì 26 aprile per favoreggiamento e cospirazione del traffico di 1.017,9 grammi cannabis. Si tratta della prima esecuzione di quest’anno nell’isola-stato sull’equatore.
Il caso di Tangaraju fa riflettere. Arrestato nel 2017 e condannato a morte nel 2018, il quarantaseienne singaporiano non ha mai toccato la droga di cui avrebbe progettato il traffico. Come sottolineano gli attivisti del Transformative Justice Collective, il suo caso si è basato su una serie di prove circostanziali. Tutto è partito dalla presenza dei suoi numeri di telefono nella rubrica di due uomini arrestati dall’Ufficio Centrale della Narcotici di Singapore. Il telefono di Tangaraju, però, non è mai stato recuperato per essere analizzato. I testimoni e le dichiarazioni dei due uomini che lo hanno accusato non sono mai stati resi noti alla difesa durante il suo processo. Al contrario, Tangaraju è stato interrogato senza un avvocato, e ha firmato una deposizione senza poterla capire interamente: durante l’interrogatorio gli è stato infatti negato l’interprete.
Nel 2020 la sorella di Tangaraju si è rivolta all’avvocato e difensore dei diritti umani Ravi Madasamy, che ha iniziato a lavorare al suo caso in parallelo a quello di altri 25 condannati a morte. Ravi ha fatto in tempo a salvarne uno, ingiustamente condannato alla pena capitale, ed è riuscito a rimandare l’esecuzione di altri 11 prigionieri, ma a causa delle sue dichiarazioni sul sistema giudiziario di Singapore la sua licenza è stata sospesa.
Tangaraju non è riuscito a trovare un altro avvocato disposto a rappresentarlo a Singapore, dove chi difende i condannati a morte rischia di dover sostenere personalmente gli alti costi processuali. Lo stesso Ravi ha dovuto pagare decine di migliaia di dollari per i casi che ha seguito. Amnesty International e Human Rights Watch hanno denunciato più volte le azioni disciplinari contro gli avvocati. Ma con sempre meno tempo a disposizione, Tangaraju ha chiesto ugualmente la revisione del caso, e pur senza una consulenza legale ha deciso di autorappresentarsi davanti alla Corte. La sua domanda è stata respinta due mesi fa. A nulla sono valse le decine di appelli di clemenza consegnati a mano domenica scorsa presso la residenza della Presidente di Singapore.
Oggi dovrebbero essere 54 i detenuti nel braccio della morte della prigione di Changi in attesa di salire sul patibolo in un giorno qualsiasi della settimana. Le autorità non divulgano tempestivamente questi dati e le esecuzioni avvengono in silenzio, spezzato solo dal grido dei familiari che decidono di condividere il proprio dramma con la stampa e le organizzazioni per la difesa dei diritti umani. L’anno scorso sono state impiccate 11 persone, tutte per piccoli reati di droga.
La storia di Tangaraju è purtroppo molto simile a quella di molti altri detenuti. Come quella di Nazeri bin Lajim e Abdul Kahar, impiccati nel 2022, e di Syed Suhail bin Syed Zin, in attesa di esecuzione. Tutti loro hanno conosciuto la droga e il carcere minorile fin da bambini. Sono diventati adulti entrando e uscendo dalla prigione, avendo come unico riferimento un contesto privo di cure, comprensione, o altro tipo di supporto se non la punizione.
E mentre Singapore inasprisce le pene per i trafficanti, multa gli avvocati e persino i cittadini che provano la cannabis all’estero, la Thailandia ne legalizza l’uso ricreativo e la Malesia abolisce la pena di morte. Anche in Europa la situazione è molto diversa. In Italia, Germania, Paesi Bassi, Belgio e Austria il possesso di piccoli quantitativi di cannabis per uso personale è stato depenalizzato. In Spagna, Lussemburgo e Repubblica Ceca è addirittura legale coltivare un numero ridotto di piante. A Malta l’uso ricreativo è legale.
Che si sia favorevoli o contrari alla pena di morte, il caso di Tangaraju, impiccato mercoledì con l’accusa di aver progettato il traffico di un chilo di cannabis, punta i riflettori su due principi alla base della giustizia: la proporzionalità della pena e la dimostrazione di colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio.
*Fotoreporter

 

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