SALVIAMO BEHROUZ E MEDHI DALLA FORCA DEI MULLAH

Mehdi Hassani (sin) e Behrouz Ehsani

01 Febbraio 2025 :

Elisabetta Zamparutti su l’Unità del 1° febbraio 2025

È in corso una mobilitazione internazionale per scongiurare l’esecuzione di due prigionieri politici in Iran: Behrouz Ehsani e Medhi Hassani. Un appello rivolto all’Alto Commissario per i diritti umani dell’ONU Volker Türk, sostenuto da circa 300 firme di esperti e attivisti, chiede di fermare le loro esecuzioni e quelle di altri detenuti politici.
Behrouz e Medhi sono stati spostati il 26 gennaio dal carcere di Evin a quello di Qezel Hessar, il che fa presagire una loro imminente esecuzione. Mentre scrivo giunge la notizia che la Corte Suprema ha ordinato una sospensione temporanea dell’esecuzione di Behrouz Ehsani. Nessun annuncio del genere è stato fatto per il suo compagno Medhi Hassani, lasciando incerto il suo destino.
I due uomini sono stati arrestati nel settembre 2022, al culmine delle proteste scoppiate dopo la morte in carcere di Mahsa Amini. Le loro condanne a morte sono state emesse il 16 settembre 2024, nel secondo anniversario delle proteste, e confermate dalla Corte Suprema il 7 gennaio 2025. Trovo inutile ripetere gli assurdi capi di accusa, perché la sostanza è una: hanno osato opporsi al regime teocratico e misogino dei Mullah. Lo hanno fatto chiedendo quel bene prezioso quanto la vita: la libertà. Con l’aggravante di averlo fatto militando nella resistenza iraniana guidata da una donna che si chiama Maryam Rajavi che si batte per un Iran libero e democratico.
Sono un’amica da decenni della resistenza iraniana e sapere che amanti della libertà oggi ci sono ma domani potrebbero non esserci più, mi porta, oltre che a sostenere l’appello, a cercare di avvicinare il mio respiro al loro, perché la mia vita vibri con la loro. Non posso parlargli, né incontrarli. Cerco di farlo attraverso Maryam Hassani, la figlia di Medhi. Lei ha 24 anni, venti dei quali vissuti in Iran dove è nata, a Teheran.
Mi parla dalla Turchia dove vive con la mamma. È lì che ha saputo dell’arresto di suo papà nel 2022. Un arresto brutale, avvenuto a Zanjan e seguito da un trasferimento verso il carcere di Evin a Teheran dove Medhi, come Behrouz, ha trascorso sei mesi in isolamento nella sezione 209, senza alcun contatto con la famiglia. Quando è uscito dall’isolamento, uno zio ha avvisato Maryam che poi va a trovarlo in carcere. Il padre racconta la violenza dell’arresto, il viaggio in autobus, poi in auto, l’arrivo in carcere, la solitudine, l’inquietudine, l’assenza di spiegazioni, la violenza, l’isolamento.
L’ultima volta che Maryam ha visto suo papà è stato sette mesi fa. La condanna a morte non c’era ancora. È stata in fila, come le altre volte, per cinque ore, dalle 7 di mattina a mezzogiorno, prima di poter entrare. Ha atteso che il detenuto venisse chiamato. Quando Medhi arriva la fanno entrare nella grande sala colloqui per oltre 100 detenuti. Le mura sono ingrigite dal tempo, le finestre oscurate dalle sbarre di ferro, si respira un odore cattivo attorno al tavolo di plastica dove avviene il colloquio che dura un’ora e mezza con le guardie che passano ogni 20 minuti per dire di uscire. In quell’incontro parlano del caso giudiziario benché non si possa liberamente scegliere l’avvocato che è il carcere a imporre. Medhi non era preoccupato per sé, quanto per la famiglia. Sapeva dai compagni di detenzione che poteva arrivare una condanna a morte ma non pensava all’esecuzione. Stava con altri detenuti politici in celle con 5 o 8 persone a volte senza il letto, costre tte a dormire per terra. Maryam racconta che suo papà è energico e spesso si trovava a confortare, sostenere e incoraggiare gli altri detenuti.
Medhi viene a sapere dai detenuti che è stato condannato a morte. Non dall’avvocato, non dal carcere, non dal magistrato. Cade nello sconforto ma trova la forza di avvisare la famiglia. L’incontro che era stato fissato con la moglie però lo cancella. L’ultima volta che Maryam ha sentito suo papà è stata due settimane fa, al telefono per 5 minuti. Stava un po’ meglio. Parlava della libertà. Chiedeva di non preoccuparsi per lui ma di occuparsi della famiglia. Poi il trasferimento da Evin a Qezel Hessar. Messo di nuovo in isolamento, come Behrouz.
Lì sarebbero rimasti se non fosse stato per la mobilitazione dei prigionieri politici affinché le famiglie fossero informate. Così la moglie di Medhi, due giorni fa, va a trovarlo. I capelli lunghi di Medhi sono stati tagliati. Il colloquio dura venti minuti e avviene attraverso un vetro divisorio.
Maryam non fa parte della resistenza ma ricorda con fierezza che il papà non ha mai permesso che la famiglia entrasse nella sua scelta di impegno politico e in quello che riteneva giusto fare. Quando gli è stata avanzata la proposta degli avvocati di “collaborare” per evitare l’esecuzione il suo rifiuto è stato netto: “non mi pento di aver lottato per la libertà”.

 

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