02 Luglio 2022 :
Antonio Coniglio su Il Riformista del 1° luglio 2022
Ci fu un tempo – prima della Moscovia – in cui tutto ruotava intorno a Kiev. La Rus’ di Kiev divenne lo Stato più grande d’Europa e uno dei più prosperi, grazie alla sua posizione commerciale tra Europa e Asia.
La “Rus” era Kiev e Kiev era la Russia. Nessuno saprà mai se una Russia abbia invaso un’altra Russia per una vendetta nei confronti di una vecchia storia medievale o per rincorrere il sogno di Ivan il Terribile o di Pietro il Grande. Lo chiamano “nazionalismo popolare” ma in fondo è semplicemente “Wille zur Macht”, volontà di potenza: un desiderio incessante, smodato, senza limite. Non è istinto di sopravvivenza, complesso di accerchiamento, ma superamento di quei confini statuali – in sé e per sé già diabolici e divisivi – per affermare una forza che diventa distruzione, autoannientamento, esplosione in grado di consegnare l’io a un’esperienza estatica.
La violenza levatrice della storia: il disastro come rifondazione di un nuovo ordine. È un pensiero antico che ha generato un mondo abisso di solitudine e disperazione. Perché il pensiero crea la materia e cattivi pensieri partoriscono soltanto calcinacci e frantumi. Infine, quando chiederanno a Vladimir Putin, a guisa della Medea di Sofocle, «cosa resta?», oltre alle rovine, alla terra bruciata, lui risponderà «resto io».
L’Ucraina, un’altra Russia, è stata aggredita da questo “pensiero del mondo” e non esiste neutralità, equidistanza che non sia più violenta della violenza stessa. Insegnava Marco Pannella, illuminato da Gandhi: «fin quando non costruiremo una società di nonviolenti, sarà dovere dei nonviolenti, se non vogliono essere vili, schierarsi al fianco della violenza più vicina alle ragioni del diritto». È un paradosso che salva vite, la vita stessa. È più vicina alle ragioni del diritto la violenza dell’aggredito che lotta per la sua autodeterminazione, per il suo diritto di essere, di esistere al mondo. Come ha chiosato Sergio D’Elia, in questi mesi tormentati: esiste sempre un’obiezione di coscienza. Alle armi ma anche a un pacifismo che è l’altra faccia della “tolleranza” detestata da Pier Paolo Pasolini. Una tolleranza nominale per mettere la testa sotto la sabbia, tolleranza repressiva del potere che maschera la propria viltà, che grida “pace” ma condanna chi vuole resistere, forsanche per esser minoranza.
Poi c’è il tempo della nonviolenza. Hic et nunc: ora e subito. Mezzi cattivi prefigurano solo fini funerei. Pensiamo davvero, nel solito dopoguerra terrificante, di consegnarci a un Tribunale? A una giustizia che brandisce una spada dinnanzi ai vinti? Una giustizia che sappia giudicare, “decidere”? Il “decidere” chi sono i colpevoli – come lo intendiamo noi – deriva dal verbo latino “caedo” che significa troncare. Vogliamo troncare ancora una volta il futuro? Non esiste bilancia, dove si giudica, si decide, si tronca, si usa una spada.
Giustizia è soltanto verità e riconciliazione. Che spezza le catene dell’odio. Ci sarà altrimenti sempre una “Rus di Kiev” e un’altra Russia. Non esisterà un mondo, capace di perdonare innanzitutto sé stesso e farsi carico delle differenze.
Non c’è Vestfalia, Vienna o Yalta che possano creare un ordine. È una pace fallace. Che prepara alacremente una nuova guerra. È la storia degli orrori del diritto penale del nemico che umilia i vinti, che fa strage di uomini. Che si arroga il diritto – come è avvenuto di questi tempi – di decidere, troncare, la vita di tanti russi, confiscando il loro patrimonio. In modo eversivo, sulla base di un reato di status: l’appartenenza a un genus, a un popolo. Che brutta storia l’essere “diabolici”, classificare, separare! Che orrore “sequestrare”, oscurandola, finanche la musica, la poesia, l’arte che non appartiene soltanto al popolo russo ma è un lascito imperituro dell’umanità.