20 Marzo 2021 :
Valerio Fioravanti su Il Riformista del 19 marzo 2021
In Iran una ragazza di 19 anni ha “partecipato attivamente” all’impiccagione della madre. La notizia risulta talmente stridente da meritare un approfondimento.
La storia è stata pubblicata il 15 marzo da Iran Human Rights, una Ong che per comprensibili motivi di sicurezza non identifica mai i propri corrispondenti, ma asserisce di pubblicare le notizie provenienti dall’Iran solo dopo averne ricevuto conferma da almeno due fonti diverse. Quindi sì, è molto verosimile che una giovane donna, Maryam Karimi, sia stata impiccata il 13 marzo nella prigione di Rasht, e che la figlia abbia partecipato attivamente all’esecuzione.
Così IHR ha ricostruito la vicenda: “Maryam Karimi era accusata di aver ucciso il marito, un uomo violento, che abusava di lei, e che non voleva concederle il divorzio. Il padre della donna, Ebrahimi Karimi, che non aveva altro modo per salvare la figlia, l’aveva aiutata nell’omicidio”. Entrambi vennero condannati a morte 13 anni fa. All’epoca i coniugi avevano una figlia di 6 anni, alla quale era stato detto che tutt’e due i genitori erano morti.
Poche settimane fa, per prepararla psicologicamente all’esecuzione, alla giovane è stata detta la verità. Dopo l’esecuzione della figlia, Ebrahimi Karimi è stato portato al patibolo perché potesse vederla penzolare, ma poi, per motivi che la fonte non è stata in grado di specificare, è stata riportato in isolamento, e non giustiziato a sua volta. Sembra anzi che nell’arco delle prossime 48 ora verrà tolto dall’isolamento e riportato al reparto “normale”.
L’Iran, come è noto, ha modellato il proprio codice penale sull’interpretazione sciita del Corano. I reati di sangue sono normati dal concetto di “Qisas”, termine che in Occidente viene tradotto come “restituzione dello stesso tipo” oppure, più colloquialmente, "legge del taglione”. La famiglia della vittima può richiedere “qisas”, oppure può concedere il proprio “perdono”. A volte il perdono è gratuito, quasi sempre fa seguito ad un risarcimento, detto “diya”, che letteralmente sarebbe “prezzo del sangue”. Le trattative economiche per il “prezzo del sangue” generano a volte delle “esecuzioni abortite”: il condannato viene sottoposto a tutti i preparativi per l’esecuzione, compreso l’ultimo colloquio con i familiari, e all’alba viene portato al patibolo, e gli viene infilato il collo nel cappio. A quel punto il direttore del carcere annuncia che sono in corso ulteriori trattative, e l’esecuzione viene sospesa.
Sono riportati casi di persone che hanno subito queste “esecuzioni abortite” anche più di una volta. Se l’accordo viene raggiunto, il condannato lascia il braccio della morte, e in alcuni casi viene anche scarcerato. Altrimenti i parenti delle vittime vengono sollecitati a compiere loro stessi alcune delle manovre relative all’impiccagione. Nei resoconti delle esecuzioni capita di leggere che il “parente” ha scalciato personalmente lo sgabello da sotto le gambe del giustiziando.
Questo coinvolgimento delle “vittime”, nella sensibilità contemporanea, appare molto controverso. Lo stesso IHR, che da 5 anni edita un rapporto annuale, sul “perdono” ha un atteggiamento ambivalente. Nell’ultima edizione (2020) notava con favore che per ogni 2 esecuzioni effettuate, 3 erano state annullate grazie al “perdono”, e che la tendenza a perdonare sta crescendo al ritmo del 10% l’anno.
Il direttore di IHR, Mahmood Amiry-Moghaddam, però, commentando l’esecuzione di Maryam, ha messo in luce anche l’altra faccia della medaglia: “Le leggi della Repubblica islamica fanno di una ragazza il cui padre è stato ucciso quando era bambina, la carnefice di sua madre. La Repubblica Islamica è oggi il principale promotore della violenza all’interno della società iraniana. Porre la responsabilità dell'esecuzione sulle spalle dei parenti delle vittime favorisce il perpetuarsi di ulteriori violenze e crudeltà”.
Noi europei, con il nostro “stato di diritto”, ci sentiamo molto lontani dal meccanismo tribale iraniano che assegna potere di vita o di morte al privato cittadino. Eppure, ci si passi la lettura paradossale, forse tra le nostre culture c’è un punto di contatto. La ministra Cartabia sta proponendo l’introduzione della “giustizia riparativa” nei nostri codici. Sarebbe una misura altamente innovativa.
Speriamo ci riesca, così anche in Italia la parte lesa, se si riterrà soddisfatta dal percorso riabilitativo del reo, potrà aiutarlo ad ottenere uno sconto di pena. Come dire, la parte buona del Qisas. A volte il progresso segue percorsi ben strani.