02 Novembre 2024 :
Iacopo Benevieri* su l’Unità del 2 novembre 2024
Il 25 gennaio 1947 era un sabato mattina. Quel giorno si svolse una straordinaria discussione in seno all’Assemblea Costituente, un dibattito che sarebbe bello non dimenticare. Il dibattito fu sul contenuto di quello che sarebbe stato poi l’art. 27 della Costituzione.
Il Deputato Aldo Bozzi, del Partito Liberale, ricordò l’urgente necessità che fosse inserito in Costituzione la salvaguardia del “trattamento fisico” della persona detenuta: “il fatto stesso della pena è già qualche cosa che intacca questo patrimonio morale che è la dignità umana. Ora il concetto che si deve esprimere riguarda il trattamento fisico”.
L’Onorevole Giuseppe Maria Bettiol concordò e sottolineò che “deve restare il principio che la pena deve umanizzarsi, che la pena, particolarmente nel momento della sua esecuzione, deve essere tale da non avvilire, da non degradare l’individuo. Dobbiamo sempre tener presente che anche nel più malvagio [c’è lo spazio perché sia] riabilitato”.
Intervenne l’On. Leone, che suggerì di utilizzare le parole “pene e trattamenti”: oggetto della tutela costituzionale doveva essere il momento sanzionatorio anche nella sua dimensione dinamica, cioè nella fase esecutiva e, soprattutto, nelle prassi, nei protocolli, nell’attuarsi quotidiano della pena. Inoltre esortò a inserire nella disposizione costituzionale una espressione straordinaria, cioè la locuzione “contrari al senso di umanità” al posto di “lesivi della dignità umana”.
L’art. 27 della Costituzione contiene infatti queste parole: “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”.
Con questo articolo viene inserito in Costituzione un parametro mirabile perché non è giuridico, né normativo: “il senso di umanità”. Nella Costituzione italiana il “senso di umanità”, quell’idem sentire umano diventa parametro costituzionale che regola, indirizza, disciplina, orienta il “trattamento” sanzionatorio. Non si è ritenuto sufficiente fare riferimento a convenzioni internazionali, al diritto naturale, ai principi universali, si doveva richiamare qualcosa di più profondo e comune al consorzio umano, cioè il “senso” d’umanità. Così i trattamenti sanzionatori, quand’anche rispettassero leggi, regolamenti, accordi ma fossero “contrari al senso di umanità” sarebbero comunque incostituzionali.
L’attuazione dell’art. 27 della Costituzione vive o muore oggi solo se questo “senso di umanità” noi, oggi, a distanza di più di 70 anni, sappiamo vederlo, percepirlo, proteggerlo. Ecco quindi: “Assemblea Costituente” è un participio presente. È un’Assemblea Costituente perenne, quotidiana, permanente: siamo noi che continuamente costituiamo la Costituzione, richiamandoci a quella voce profonda che ci unisce nel senso di umanità.
Molti componenti dell’Assemblea Costituente e della Commissione dei 75 avevano conosciuto il carcere politico, l’esilio, il confino: Teresa Noce, Giorgio Amendola, Ivanoe Bonomi, Edoardo D’Onofrio, Alcide De Gasperi, Palmiro Togliatti, Pietro Mancini, e molti altri avevano conosciuto celle anguste, avevano subito atti di inumanità. Quel drammatico vissuto sui loro corpi detenuti fu trasferito nell’art. 27 della Costituzione.
L’On. Preziosi ricordò alla Commissione questa comune esperienza: “purtroppo molti dei presenti nell’Aula ne hanno fatto esperienza. Anche lei, onorevole Presidente, ha visto, soffrendo per la libertà del nostro Paese, come vergognoso sia il sistema carcerario vigente in Italia”.
Oggi quando regoliamo, legiferiamo, progettiamo riforme sul carcere dovremmo forse convincerci che in queste celle, dove oggi sono ristretti i corpi di detenuti ignoti, in queste celle in realtà ci sono ancora quei corpi dei nostri Padri e Madri costituenti, che conobbero la disumanità di un carcere e che chiesero a noi tutti oggi di nutrire continuamente il “senso di umanità”. Finché non libereremo l’ultima persona detenuta da queste condizioni disumane delle carceri, in quelle celle resteranno ancora confinati i corpi di Teresa Noce, di Giorgio Amendola e di molti altri. D’altronde la parola “carcere” ha un unico anagramma possibile, è “cercare”. Il contrario, dunque, di uno stop, di una fine, di un epilogo.
* Camera penale di Roma