04 Luglio 2021 :
Prof. Avv. Elena Baldi
Eppure, questa volta, i tempi del processo sono stati proprio quelli giusti, quelli del giusto processo, dell’art. 111 della Carta Costituzionale. Indagini preliminari, primo grado e appello, tutto in poco più di un anno rispetto al fatto, quasi un esempio di cui andare orgogliosi.
Per essere precisi mancherebbe ancora la Cassazione dal momento che Ait ha continuato a professarsi innocente anche con un ricorso complesso e argomentato, inoltrato alla Suprema Corte ma non ancora discusso e a oggi neppure fissato.
E allora come può dirsi concluso un processo privo ancora del suo più autorevole grado di giudizio?
In effetti la sentenza di condanna ad anni uno e mesi dieci di reclusione, pronunciata in primo grado e confermata in appello, formalmente non è ancora definitiva. Definita e definitiva però è stata la pena, nel significato sostanziale del termine e cioè nel senso che Ait l’ha già scontata, integralmente, recluso in un carcere italiano, in anticipo rispetto alla conclusione del processo.
Si, nel nostro civilissimo Paese può capitare che un qualsiasi imputato, in ossequio al principio del pericolo di reiterazione del reato, di inquinamento della prova o della possibile fuga, prima sconti la pena e poi venga giudicato, come è stato per Ait: la legge e la giurisprudenza lo consentono.
Ait è stato arrestato subito dopo aver commesso i fatti che lo hanno poi portato al processo e, nonostante il riesame, l’istanza di modifica della misura (al Gip e alla Corte d’Appello), gli appelli cautelari, ha trascorso continuativamente in carcere un anno e dieci mesi della sua vita libera e cioè tutta la pena, tutto il tempo che aveva stabilito in primo grado il Giudice e che, in difetto di impugnazione del P.M., rappresenta il tetto massimo oltre il quale non è potuta andare la Corte d’Appello che detta sentenza ha confermato, e non potrà andare la Corte di Cassazione, in quel processo inutile e beffardo che in un giorno futuro si farà.
Ait è accusato di avere procurato lesioni volontarie al proprietario del suo appartamento che si era recato a casa sua per reclamare il pagamento del canone e che dopo avergli sfasciato con un bastone il televisore aveva riportato una ferita al cuoio capelluto a seguito di colluttazione.
Ait, accusato di aver dolosamente provocato la ferita, ha eccepito la legittima difesa, ha chiesto la derubricazione nel reato di lesioni colpose e in ipotesi la concessione dell’attenuante della provocazione o le generiche. Tutte respinte le sue istanze ed eccezioni, in primo grado e in appello, mentre scorrevano le settimane e i mesi all’interno del carcere, privato delle garanzie minime che ogni detenuto, formalmente definitivo, può invece avere. Per lui, infatti, incarcerato e mantenuto in prigione in ragione del “pericolo di reiterazione del reato”, principio valido per i neofiti del diritto ma, quasi sempre, contenitore vuoto per chi è pratico di diritto penale live, non è stato possibile accedere al percorso rieducativo e neppure ai permessi premio, e neppure alla liberazione anticipata e neppure all’affidamento ai servizi sociali e neppure alla detenzione domiciliare e neppure al lavoro esterno.
Insomma a lui, che non sappiamo ancora se sia colpevole o innocente, sono stati negati, “giustamente” e codice alla mano, tutti quei benefici a cui ha potuto e può accedere anche il più “definitivamente” incallito dei criminali.
Ovviamente ad Ait è stato spiegato che, visto l’andazzo, sarebbe stato meglio rinunciare alla Cassazione, prendersi i “giorni” di liberazione anticipata e uscire dal carcere quattro mesi e mezzo prima di quanto poi avvenuto.
Ma lui che chiedeva giustizia non ha accettato di mercanteggiare, neppure con la sua libertà.
Può darsi che Ait abbia commesso il reato, può darsi che l’orribile sentenza di primo grado rispecchi proprio ciò che è avvenuto nella sua casa, ma ciò non sarà sufficiente ad assolvere il nostro sistema dalla profonda ingiustizia che si è già consumata, a prescindere da quanto un giorno stabilirà la Suprema Corte di Cassazione di uno Stato in questo caso irrevocabilmente perdente.
Chi giudica e chi legifera non deve mai dimenticare le regole fondanti del diritto penale, quelle contenute nella nostra Carta Costituzionale (l’art. 24, l’art. 25, l’art. 111) quelle che ci hanno insegnato e tramandato i nostri Maestri. Chi giudica non deve mai dimenticare l’uomo.
Probabilmente saranno queste le parole finali della nostra arringa quando un giorno saremo chiamati a Roma, a concludere un processo sostanzialmente inutile ma che, nelle speranze di Ait e nelle nostre speranze, inutile non è.