02 Novembre 2022 :
Raffaella Stacciarini su Il Riformista del 28 ottobre 2022
“In radio mi hanno chiesto cosa farei per i detenuti. Sapete io cosa farei? Inventerei una lima potentissima, una super-lima-mirabolante, e ve la regalerei per segare le sbarre e uscire da qui: veloci! dinamici! svelti, andate via tutti!” Checché se ne dica, a Vanna Marchi i mezzi termini non sono mai piaciuti e non piaceranno mai. Il pubblico esplode in uno scroscio di incitazione e per un attimo sembra di ripiombare nel rampantismo scalmanato e sognante di fine anni ’80, quando la Prima Repubblica era sull’orlo del tracollo ma ancora non lo sapeva, e Marchi la precedeva di poco, senza saperlo pure lei.
Stavolta non siamo nelle sale del potere né in tv, anche se della tv il luogo ne condivide le sembianze, una scatola chiusa che può diventare prigione, e in questo caso lo è: nel teatro interno della casa di reclusione di Opera – il carcere di massima sicurezza alle porte di Milano che ogni mese accoglie il laboratorio Spes contra spem di Nessuno tocchi Caino – il dna da venditrice torna con una veste inedita; l’energia all’epoca al servizio della televendita ora convertita in motore di speranza per i detenuti.
E sì che di entrambe – energia e speranza – qui c’è più bisogno che mai. Vanna Marchi e la figlia Stefania Nobile, che dalla scorsa primavera partecipano al laboratorio e per anni hanno conosciuto il carcere in prima persona, lo sanno bene. “Io mi sento libera ogni volta che vengo qui” dice Stefania, “perché libera fuori non lo sarò più.” Come sono diverse Vanna e Stefania, oggi, in questa loro seconda vita, dall’immagine che televisione e fiction hanno consegnato della loro prima vita!
Un percorso, il loro, che comincia insieme con la carcerazione preventiva nel 2002 e si conclude in maniera definitiva nel 2013 per Stefania, nel 2014 per Vanna. Nel mezzo, il calvario delle cure per l’artrite reumatoide della figlia, patologia autoimmune che la rende invalida al 100% e che sancisce la separazione madre-figlia nel 2009, anno in cui Stefania viene trasferita nel carcere di Pisa, ritenuto più idoneo al trattamento della malattia. “Il momento più difficile? Quando l’hanno portata via da me”, Vanna non trattiene le lacrime. Soprattutto perché per la malattia di Stefania le cure non sono quelle promesse, e il centro idoneo si rivela invero una sorta di discarica dove parcheggiare chi nelle altre case di reclusione non può più stare.
Eppure, loro come altri riescono a trasformarsi e a trasformare il luogo della pena in luogo di dignità e libertà interiore: Vanna lavorando in cucina (“cucinavo per tutti, adoro cucinare”), Stefania riconsiderando il passato – i miliardi, il parco auto, la notorietà – alla luce del presente. Ché dietro le sbarre i beni materiali perdono ogni valore e ci si trova a fare i conti con sé stessi e coi propri errori, soli e nudi, inchiodati a nuove priorità.
Forse, per dirla con le parole del segretario di Nessuno tocchi Caino Sergio D’Elia, la lima più potente che fa evadere dal carcere è quella che prima libera la mente, apre il cuore, eleva la coscienza. La vera libertà si scopre interrompendo una coazione a ripetere, e quando la coazione a ripetere si spezza con un evento traumatico come quello dell’arresto non si arresta la persona, ma la vita della persona fino a quel momento: eccola, la liberazione. Il rinascere a nuova vita, senza dissociarsi dalla precedente ma tenendo insieme il tempo, le cose, le vite (l’importanza della religiosità, quella laica e letterale: “re – ligo”, legare, tenere insieme).
Tengono insieme le vite Vanna Marchi e Stefania Nobile. Qui a Opera tiene insieme le cose Orazio, che oggi esce in permesso-premio, una piccola libertà dal fine-pena-mai che fino a ieri sembrava impensabile. Tiene insieme i tempi Antonio, da 30 anni in carcere, quotidianamente dedito al ricamo, spesso senza completare le figure per regalarsi una via di fuga, l’illusione del movimento. Che forse illusione non è, perché il movimento interiore è verità più potente di qualsiasi moto esterno, nel cosiddetto mondo libero.
Lungo il corridoio d’uscita sgattaiola un frequentatore abituale delle sezioni, pelo a chiazze cineree e occhio sornione – si chiama Opera, ma in molti sostengono sia la reincarnazione felina di Marco Pannella –, ci guarda di sguincio da un mondo che non è il nostro, e se ne va.