01 Ottobre 2023 :
Sergio D’Elia su L’Unità del 30 settembre 2023
Il certificato di morte è stato reso pubblico dal Comitato popolare del comune di Thu Phong, distretto di Cao Phong, provincia di Hoa Binh. Secco e gelido come l’epitaffio su una lapide, afferma che il prigioniero del braccio della morte Le Van Manh, nato nel 1982, è morto alle 8:45 del 22 settembre 2023 in un centro di esecuzione della polizia provinciale di Hoa Binh. La notizia della sua imminente esecuzione era stata comunicata alla famiglia qualche giorno prima al fine di prendere accordi per il ritiro della salma e il luogo di sepoltura.
Alla fine di agosto il capo supremo del Paese, Vo Van Thuong, aveva commutato dalla pena di morte in una pena fino alla morte il destino di 11 prigionieri. La commutazione rientra nelle prerogative del presidente dello Stato, come previsto dalla Costituzione e dalla legge, e “dimostra la clemenza e la politica umanitaria del Partito e dello Stato”, hanno comunicato con soddisfazione le autorità.
Nel caso di Manh, non è stata dimostrata nessuna pietà. L’avvocato di Hanoi, Nguyen Ha Luan, aveva aiutato la famiglia a presentare una petizione al presidente per fermare l’esecuzione, ma la procedura mortale è andata avanti lo stesso.
All’inizio della ultima settimana di vita, le missioni diplomatiche dell’Unione Europea, del Canada, della Norvegia e del Regno Unito in Vietnam hanno esortato le autorità a mostrare pietà a Manh. “Ci opponiamo fermamente all’uso della pena capitale in ogni momento e in ogni circostanza, perché è una punizione crudele, inumana e degradante e non può mai essere giustificata, e chiediamo al Vietnam di adottare una moratoria su tutte le esecuzioni”, si legge nella dichiarazione congiunta. Ma anche le richieste internazionali di risparmiargli la vita sono state rigettate. Human Rights Watch ha affermato che l’esecuzione di Manh è “un esempio lampante di tutto ciò che c’è di sbagliato nel sistema giudiziario vietnamita”. Amnesty International l’ha definita semplicemente “disgustosa”.
Il caso era divenuto noto internazionalmente perché Le Van Manh era un prigioniero di lunga data nel braccio della morte. Nel 2005, quando aveva 23 anni, era stato accusato di rapina, stupro e omicidio di una ragazza di 13 anni del suo stesso villaggio nella provincia settentrionale di Thanh Hoa. Secondo la Commissione Internazionale dei Giuristi (ICJ) che si era occupata del caso, la polizia aveva ottenuto una confessione attraverso la tortura su cui si è poi fatto affidamento per condannarlo. Manh ha poi ritrattato la confessione, dicendo che la polizia lo aveva picchiato duramente. Gli avvocati hanno chiesto un esame del corpo dell’imputato per determinare se fosse stato maltrattato, ma la corte ha rifiutato. Anche la Corte Suprema di Hanoi non ha avuto dubbi e ha confermato la pena di morte in un processo d’appello nel 2008.
Di solito, il potere vietnamita sulla vita e la morte dei suoi cittadini, non pone tempo in mezzo tra il dire e il fare giustizia. Avvolte da una coltre spessa di segretezza, decine di fucilazioni sono effettuate ogni anno nel Paese. Si tratta quasi sempre di trafficanti e spacciatori di droga, caduti nelle maglie strette delle leggi proibizioniste nel più vasto, libero e incontrollabile mercato della droga del sudest asiatico. Finiscono nella rete molti pesci piccoli, quelli grandi spesso la fanno franca, soprattutto se non hanno la pelle gialla.
Ai primi di giugno, due cittadini australiani condannati a morte hanno ottenuto la grazia nel giro di poche ore durante una visita ufficiale nel Paese del primo ministro australiano Anthony Albanese. “Ieri mattina ho presentato rimostranze al primo ministro [vietnamita] e ieri pomeriggio il presidente ha firmato i provvedimenti di grazia”, ha detto Albanese fiero di sé al programma della ABC.
Per Le Van Manh, invece, nessuna grazia. Nonostante la tortura, le gravi irregolarità e violazioni del diritto a un giusto processo, le autorità del Vietnam lo hanno fucilato.
Non due atti di grazia per cittadini stranieri liberati per forza di buone relazioni internazionali, non undici atti di clemenza ogni tanto per mostrare al mondo il volto buono del regime, il governo vietnamita dovrebbe commutare immediatamente tutte le condanne a morte. Per dimostrare l’umanità dello stato e del partito nei confronti dei cittadini vietnamiti. Per fermare gli errori giudiziari e i trattamenti inumani o degradanti come quelli che hanno martoriato il corpo del povero Manh che ora, dopo venti anni di crudeli sofferenze, riposa finalmente in pace nel cimitero di Cho Nhang.