SULLE STRAGI IN UCRAINA IMPARIAMO DA MANDELA

Nelson Mandela

30 Aprile 2022 :

Enrico Marignani su Il Riformista del 29 aprile 2022

Una delle finalità del diritto penale è smascherare l’ipocrisia del bene. In ciascuno di noi, diceva Simone Weil, si annida il desiderio della guerra, della forza come strumento per la costruzione del reale. Quella forza primordiale deve però essere bonificata in energia che dona vita invece di morte. Compito di ogni comunità umana è dunque arginare, incanalare, bonificare quella forza simile alla eruzione di un vulcano o a un terremoto devastante per dare a tutti uno spazio di sopravvivenza.
Chi si occupa di diritto penale quindi non è, sotto il profilo ontologico, diverso da un architetto o da un ingegnere civile: partecipa alla costruzione della città controllando che il limite ultimo, oltre il quale c’è la morte, non venga oltrepassato. Tuttavia il compito è arduo e richiede l’impegno di tutti, dall’ultimo arrivato al più meritevole, e nessuno può essere escluso in questa costruzione del reale.
Con l’introduzione della giustizia riparativa il diritto penale dovrà quindi necessariamente occuparsi di un terzo soggetto, finora rimasto escluso dal processo: la Comunità. E con l’introduzione delle tecniche di giustizia riparativa si vuole riportare l’attenzione all’impegno a cui ogni comunità umana – locale, nazionale, internazionale – è chiamata a rispondere: arginare la forza distruttiva insita nella sua stessa esistenza per contenere i fenomeni di violenza; laddove vi saranno lacerazioni o ferite causate da fenomeni classificati dal codice penale come reati, la comunità dovrà intervenire per ricucire, riparare il danno subito, partendo da chi ne ha subito le conseguenze. Il dolore della parte lesa sarà quindi il focus delle attenzioni dei mediatori penali e il centro di giustizia riparativa il luogo prescelto per aiutare e ascoltare il danneggiato. Il presupposto fondante di ogni centro di giustizia riparativa sarà quindi la disponibilità all’ascolto da parte dei mediatori penali che saranno a loro volta supportati da un sentire, comune in quanto necessario, condiviso da tutti i membri della comunità; l’ascolto del mediatore, in altri termini, dovrà diventare lo spazio assoluto in cui dare la possibilità al danneggiato, se lo vorrà, di ritrovare le ragioni della propria esistenza, dopo la violenza subita.
La giustizia di comunità è quindi la capacità di un gruppo sociale di attivare un processo di riappacificazione indipendentemente dall’organo giurisdizionale, che coinvolga l’intera comunità nell’interesse del reo e del danneggiato.
Esistono nel recente passato due celebri esempi nel mondo: quello delle corti Gacaca istituite da Paul Kagame alla fine del genocidio in Ruanda nel 1994 e quello della commissione per la Verità e la Riconciliazione istituita da Nelson Mandela in Sudafrica nel 1995 alla fine dell’apartheid. La comunità internazionale ha assistito, contro ogni previsione, alla capacità delle corti ruandesi e della commissione sudafricana di tenere insieme sia fisicamente che idealmente, nella loro opera di mediazione, il carnefice e la vittima. Senza prendere posizione, senza condannare o assolvere, senza prendere le parti dell’uno o dell’altro, ma invitare il carnefice a riconoscere il misfatto e la vittima a urlare il dolore subito. Il risultato sorprendente e inusuale è stata la riappacificazione delle vittime con sé stesse e con il torto subito che ha interrotto la catena delle vendette reciproche.
La comunità internazionale, tuttavia, sembra rimanere ancorata alle logiche di giustizia punitiva esemplare. Ha suscitato qualche perplessità in passato la volontà politica di condannare innanzi a un Tribunale internazionale i responsabili dei crimini di guerra nei Balcani, così come ora si vorrebbe istituire un processo penale internazionale a carico dei responsabili degli eccidi in Ucraina. La condanna non risponde a esigenze comunitarie, ma solo a logiche di potere che non potranno che provocare altre ingiustizie. Sarebbe quindi più efficace spostare il focus sulla devastazione che la guerra sta causando, aiutando i sopravvissuti e chi soffre a ricostruirsi un futuro e lasciare ai posteri, se lo vorranno, la ricerca delle inutili colpe.
Non possiamo rimanere immersi nella realtà mortifera della guerra e della violenza, della resistenza o della resa, delle ragioni e dei torti, dei delitti e delle pene. Occorre avere sin da oggi una visione del futuro, pre-vederlo, prefigurarlo. Se vogliamo una liberazione e una pace che durino nel tempo, occorre pensare, sentire e agire oggi nel modo e nel senso in cui vogliamo vadano le cose. Cominciamo subito a mettere in circolazione parole e strumenti di segno diverso: di dialogo e nonviolenza, di verità e riconciliazione. Proviamo, agiamo, pensiamo a qualcosa di meglio del diritto penale. Liberiamo innanzitutto noi stessi e liberiamo il campo dagli armamentari mentali e strutturali del giudizio: indagini e tribunali, condanne e pene, procuratori e giudici, carcerieri e boia.

 

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