STORIA DI SACCO E VANZETTI, IL PROCESSO INGIUSTO E LA NASCITA DELLA LOTTA CONTRO LA PENA CAPITALE

Ferdinando Sacco (a destra) e Bartolomeo Vanzetti

17 Luglio 2021 :

Pasquale Hamel su Il Riformista del 16 luglio 2021

Sono esattamente trascorsi cent’anni da quel 14 luglio 1921, giorno in cui i giudici dello Stato del Massachusetts condannarono alla pena capitale Ferdinando Sacco e Bartolomeo Vanzetti, un operaio e un pescivendolo che, negli anni della grande emigrazione, avevano lasciato l’Italia per raggiungere l’America: la terra promessa. Una sentenza di condanna basata su indizi superficiali che un giurista di Harvard del calibro di Felix Frankfurter, nel marzo del ’27, sull’Atlantic Magazine aveva bollato come frutto di un processo ingiusto, segnato dalla parzialità del giudice, da inquadrare nel clima di isteria post-bellica che marchiava la società americana.
Eppure, processo dopo processo, nonostante l’ipotesi d’accusa fosse divenuta sempre più fragile – il giudice aveva platealmente rifiutato la richiesta di revisione avanzata dalla difesa a seguito delle dichiarazioni di Celestino Morales, un detenuto portoghese, che scagionavano i due condannati – quella condanna “ingiusta” (così la definì nel 1999 il Governatore del Massachusetts Dukakis riabilitandoli) fu confermata. E nel carcere di Charleston, nella notte del 23 agosto del 1927, il boia eseguì la sentenza, provocando sconcerto nell’opinione pubblica e in tanti prestigiosi intellettuali, a cominciare da Albert Einstein per arrivare a Bernard Shaw e Bertrand Russell, che si erano spesi apertamente per la loro liberazione. Sono trascorsi dunque cent’anni, e purtroppo si deve con sconforto prendere atto che la pena di morte – “L’assassinio legale incomparabilmente più orrendo dell’assassinio brigantesco”, così ne scriveva Fëdor Dostoevskij – continua a essere applicata in tanti Paesi del mondo e, scandalo fra gli scandali, in numerosi stati della civilissima America.
Eppure, proprio l’esecuzione di quei due innocenti, sacrificati al pregiudizio razziale e ideologico – gli italiani in America erano allora considerati reietti e scomodi, stranieri e la loro attività politica, i due non facevano mistero della loro fede anarchica, ritenuta sovversiva e perturbatrice dell’ordine pubblico – con il diffuso clamore che l’accompagnò, ebbe anche un risvolto positivo per la storia della civiltà giuridica perché portò all’attenzione dell’opinione pubblica mondiale la barbarie della condanna a morte, di quella pena che, già nella seconda metà del ‘700, Cesare Beccaria aveva definito “pubblico assassinio”.
Ma andiamo ai fatti. Il dramma dei due italiani, che erano noti per la loro attività politico-sindacale, era iniziato con l’arresto nel 1920 con l’accusa di “possesso di armi e di materiale sovversivo” a cui, subito dopo, era seguita l’imputazione più grave, quella che decise la loro sorte, e cioè di essere autori di una rapina, consumata in un quartiere di Boston e conclusasi, tragicamente, con la morte di due dipendenti: il cassiere e una guardia giurata del calzaturificio Slater&Morrill, la ditta rapinata. Nonostante i due imputati si proclamassero innocenti e che la fragilità delle prove fosse di tutta evidenza, la macchina della giustizia americana, eccitata dal preconcetto e dal fanatismo del procuratore Katzam che trovò sponda nel giudice Thayer, andò avanti fino alle estreme conseguenze. I due italo-americani furono infatti condannati a morte travolgendo le ragioni della difesa.
Intanto, però, attorno a quella vicenda assurda era cresciuta l’attenzione dell’opinione pubblica, si erano infatti registrate molte manifestazioni di protesta e il dissenso e lo sconcerto per il comportamento della giustizia americana si era allargato a macchia d’olio alimentando l’antiamericanismo latente in molti circoli intellettuali. Da caso giudiziario la vicenda si mutò bene presto in vero e proprio affaire, tanto che molti autorevoli uomini politici del tempo, a cominciare dal presidente del Reichstag Paul Lobe, erano intervenuti per esprimere il proprio sconcerto motivando la stessa opinione pubblica mondiale.
Non mancò neppure l’intervento del governo italiano, lo stesso duce del fascismo, che spinto anche da orgoglio nazionale, fece pervenire per le vie diplomatiche, in forma molto discreta, una ferma richiesta di clemenza per i due connazionali. Il clima a livello internazionale divenne così caldo che non può meravigliare se gli stessi ambasciatori Usa in Europa e in America Latina, in modo riservato, facessero pressioni sul governo per evitare, a loro giudizio, le prevedibili ricadute negative che quell’esecuzione avrebbe avuto nelle relazioni diplomatiche americane.
Nonostante questa grande mobilitazione, non ci fu tuttavia nulla da fare; l’ottusa macchina della giustizia americana fece il suo corso e Ferdinando Sacco e Bartolomeo Vanzetti finirono sulla sedia elettrica. E tuttavia quella loro lunga “agonia diventò una vittoria”, recita il ritornello della colonna sonora del film di Giuliano Montaldo dedicato alle due vittime innocenti, perché rese consapevoli quanti mostravano indifferenza, che la pena di morte non può essere considerata altrimenti che assassinio di Stato.

 

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