31 Marzo 2024 :
Cesare Burdese* su L’Unità di sabato 30 marzo 2024
Da alcuni mesi, con Nessuno tocchi Caino visito le carceri. Lo faccio con lo sguardo dell’architetto, nella convinzione della possibilità, seppure remota, di dare dignità alle persone e ai luoghi che appartengono al carcere, attraverso il costruito. Osservare i muri del carcere, misurarli, disegnarli e descriverli non è cosa vana, se il fine è una maggiore consapevolezza del carcere per superarlo.
Lo scorso 22 marzo ho visitato le carceri di Forlì e di Ravenna, risalenti al periodo della prima riforma penitenziaria del 1889 dopo l’Unità d’Italia e architettonicamente concepite secondo l’innovativa tipologia del carcere cellulare. Da allora esse hanno funzionato in base alla ricorrente pendolarità tra spinte umanitarie e restaurazioni rigoriste che appartiene alla nostra vicenda penitenziaria e non sono mutate. Quei muri rimandano alla pena delle loro origini, afflittiva anche se finalizzata alla rieducazione e all’emenda del condannato, attraverso il lavoro, la religione e lo studio.
L’attualità continua a restituirci la storica centralità della cella nell’edificio carcerario e analogamente del suo uso nella quotidianità detentiva, nonostante la pomposa espressione camera di pernottamento che l’Ordinamento penitenziario del 1975 ha introdotto. La cella, da sempre carcere nel carcere, è il luogo dove le persone detenute – da sole o in compagnia – permangono più a lungo per libera scelta o costrette nel corso delle 24 ore. Tale circostanza addensa luci e ombre: la cella è casa, dove vivere la detenzione nella dimensione più personale e intima, condividere o isolarsi, ma è anche il luogo di ozio e di convivenza forzata in condizioni di inciviltà inaccettabile.
Il recente dibattito e i provvedimenti dell’Amministrazione sul regime e sul trattamento penitenziari, hanno significativamente riguardato anche i tempi e le modalità di utilizzo della cella. L’apertura e la chiusura delle celle, continuano a essere argomento divisivo in tema di modalità gestionale delle persone detenute. Le caratteristiche architettoniche, le dotazioni impiantistiche e gli arredi delle celle visitate, smentiscono moniti, raccomandazioni e programmi in un quadro desolante di disumanità. Esse sono troppo piccole, non rispettano le prescrizioni igienico-edilizie minime delle abitazioni civili, sono male arredate e fatiscenti. Anche se rispettano la soglia minima dei 3 metri quadrati di pavimento libero pro capite, esse mortificano immotivatamente la condizione abitativa ed esistenziale di chi le utilizza. La cella, dove si esauriscono in uno spazio minimo tutte le funzioni dell’abitare domestico, non viene equiparata a una camera da letto di civile abitazione. Nello spazio ridotto delle celle visitate, l’invadenza degli arredi fissi e mobili, preclude di fatto ogni possibilità alternativa al giacere distesi sul letto. In esse l’uso di cucinare e conservare alimenti (a volte nel servizio igienico), e di consumare pasti, tradisce ogni buona regola igienica e rimanda all’uso inopportuno che se ne fa, in quanto la norma la destina al sonno e al riposo. L’inadeguatezza e la miseria degli arredi presenti obbligano a usi impropri i vani finestra (già di per sé troppo piccoli e tamponati con reti metalliche oltre le inferriate che pregiudicano la visuale verso l’esterno), utilizzati all’occorrenza per stendere indumenti e depositare calzature maleodoranti. Il cattivo stato di manutenzione delle celle visitate fa il pari con tutto il resto, ed è particolarmente rilevante per la vetustà e la precarietà degli infissi esterni, degli intonaci, dell’impianto elettrico…
Le nostre 189 carceri in funzione, indistintamente, sono luoghi disumani e inadeguati ai fini risocializzativi, afflittivi oltremodo, anche per la loro natura architettonica, indipendentemente dall’ineluttabilità della sofferenza che la condizione detentiva determina. Il nostro carcere costruito non è mai stato adeguato né concepito secondo i valori morali e culturali della Costituzione e del dettato normativo in essere; si tratta in ogni caso di palese insipienza istituzionale. Certamente rendere umane e dignitose le nostre 189 carceri richiederebbe un investimento miliardario, ma anche altre sensibilità, fuori da ogni logica afflittiva.
* Architetto, esperto di architettura penitenziaria