03 Agosto 2024 :
Francesco Morelli*
Il dibattito sulle misure di prevenzione patrimoniali sembra avviluppatosi in una spirale di complessità tecnica sorprendente. Alte Corti interne ed europee se ne occupano e se ne occuperanno presto, ma ad ogni livello, anche scientifico, la ricostruzione di quel sistema sembra aver abbandonato lo stadio della fondazione primaria per dirigersi verso la spiegazione dei più complessi dettagli tecnici. Si scontrano quindi vivacemente posizioni opposte, espresse con argomenti contorti e assai specifici, ma giace oramai sullo sfondo la premessa fondamentale del discorso. Una premessa, va detto, non facile finanche da rintracciare.
Non è più una questione, principalmente, di garanzia dei diritti individuali. Se lo fosse si partirebbe da lì, dalla verifica sulla tenuta dei diritti davanti al sistema di tutela preventiva.
La priorità dei diritti individuali nelle nostre democrazie, oramai deflesse, non sembra la prima preoccupazione del legislatore e, cosa ancor più allarmante, di nessuna giurisdizione.
Non è una questione di fondazione teorica dell’impianto normativo. Da un lato, tutta la giurisdizione ignora sistematicamente l’ampiezza della proposta scientifica, facendone serenamente a meno, dall’altro gli stessi studiosi hanno oramai perso il conforto degli assiomi condivisi.
Non è poi, certamente, un problema di analisi normativa. Il significato dei testi normativi e della gerarchia tra le fonti dell’ordinamento è completamente sfumato. È da tempo che le semplici “parole della Costituzione” non impediscono soluzioni volte a realizzare obiettivi corrispondenti a valori (magari arbitrariamente tratti dalla medesima Costituzione) che per prevalere necessitano di abbattere il significato elementare di un testo, o la sua preminenza normativa rispetto ad altre disposizioni. È il momento dei progetti e di chi riesce ad imporli e la parola non è più un limite. Mala tempora currunt, si dirà… ma tant’è.
E proviamo allora con la logica formale. Il dibattito odierno sulle misure patrimoniali di prevenzione sembra un esempio tipico di quanto descritto dal motto scolastico ex falso quodlibet sequitur. Da premesse false (logicamente false quindi, più precisamente, contraddittorie) può scaturire qualsiasi cosa. L’impressione oggi è che ci stiamo occupando, da anni, solo di un quodlibet, un immenso, assurdo, sconfinato quodlibet. Il presupposto è semplice: chi sia indiziato di un reato o di attività delittuose può subire la confisca dei beni senza essere stato condannato per quei fatti di cui è sospettato. E, tuttavia, qualche precisazione va fatta.
È falso, ossia contraddittorio, che un soggetto possa essere innocente rispetto ad un fatto per la giurisdizione penale, epperò possa risultare non-innocente riguardo al medesimo fatto a seguito di un procedimento di prevenzione. È logicamente inaccettabile, ed è normativamente impedito dalla presunzione costituzionale d’innocenza, per cui un soggetto è colpevole d’un reato solo a seguito di sentenza di condanna definitiva emessa dalla giurisdizione penale.
È falso, ossia contraddittorio (oltre che aberrante), che un soggetto possa “appartenere” all’associazione mafiosa ma non parteciparvi, e quindi non commettere alcun reato pur appartenendo al sodalizio, ma esser pericoloso e meritevole d’impoverimento forzato. Come s’appartenga senza partecipare non si coglie, ma comunque è certo che se qualcuno appartiene alla organizzazione criminale, e lo si prova, esistono svariate, amplissime, inesorabili fattispecie penali che rendono la sua condotta meritevole di pena, basti pensare al concorso esterno (una curiosità: il Governo saprà giustificare davanti alla Corte EDU la scelta dell’ordinamento italiano di non punire penalmente la mera “appartenenza” alla mafia, senza apparire un simpatico mattacchione?).
È falso, ossia contraddittorio, che i presupposti della confisca siano cosa diversa dai reati. Che si tratti di reati specificati dalla legge (associazione di stampo mafioso in testa, ma anche truffa aggravata, peculato, concussione, corruzione, il c.d. stalking) o che si tratti di reati qualsivoglia evocati con generiche attività delittuose, sempre e solo di reati si tratta. Reati che vanno accertati dalla giurisdizione penale, e che altrimenti non esistono, a meno di non accettare che lo Stato possa imputare crimini a chicchessia senza accertarli nella sede propria, violando giusto una manciata di quelle norme costituzionali che rendono sicura la vita in una società democratica.
Se volessimo smettere di rincorrere un magmatico, autoreplicantesi e velenoso quodlibet, dovremmo partire da queste premesse, discutendole, certo, epperò affrontandole con lucidità. Ma possiamo preliminarmente accettare che “innocente = non-innocente”, “appartenenza = non-appartenenza”, “reato = non-reato” rappresentano inaccettabili contraddizioni? È arrivato il momento di assumere posizioni radicali.
* Professore associato di Diritto Processuale Penale, Università di Bergamo