18 Febbraio 2024 :
Cesare Burdese* su L’Unità del 18 febbraio 2024
L’1 e il 2 febbraio scorsi, con i vertici di Nessuno tocchi Caino e una delegazione di avvocati del Movimento Forense e della Camera Penale ‘Vittorio Chiusano’ del Piemonte Occidentale e della Valle d’Aosta, ho visitato le case circondariali di Torino e di Brissogne-Aosta. “Niente di nuovo sotto il sole” è il mio primo commento. È emersa la mancanza di agenti, educatori, assistenti sociali, psicologi e mediatori culturali. Il fenomeno del sovraffollamento, invece, si riscontra solo nella struttura torinese.
Dal punto di vista architettonico quanto mi è apparso corrisponde al tratto indistinguibile delle carceri, come da tempo ripeto, luoghi che impediscono ogni possibilità di crescita che arricchisce, monotoni, uniformi, paralizzanti per la deprivazione sensoriale ed emozionale, dove il costruito invalida, rende incerti, scoraggia, mina e reprime, anziché convalidare, rassicurare, incoraggiare, sostenere, favorire.
Quanto visto e ascoltato mi consente di tornare su aspetti stigmatizzanti. Il carcere torinese denuncia la rimozione del carcere, relegato come è all’estrema periferia della città, quello valdostano la noncuranza, in quanto collocato in aperta campagna, in una zona della valle che per molti mesi all’anno rimane in ombra. Le loro origini risalgono all’epoca dell’emergenza terroristica e al periodo degli episodi di corruzione e truffa ai danni dello Stato, che portarono allo scandalo delle “carceri d’oro”. Due circostanze che ancora oggi ne condizionano l’ambiente materiale.
Le esigenze securitarie di allora portarono a concepire strutture compatte e molto frazionate al loro interno, dove la cella, e il suo uso, prevale sul resto degli spazi previsti. Questa soluzione pregiudica la funzionalità penitenziaria attuale, nell’ottica delle esigenze trattamentali. La scarsa qualità del costruito, frutto di logiche affaristiche, e la mancanza di manutenzione, ci hanno restituito ambienti inospitali, malsani e lesivi della dignità di quanti a vario titolo li utilizzano. Gli interni delle sezioni detentive sono fortemente compartimentati e frazionati e non relazionano con gli spazi all’aperto prospicienti, che in questo modo risultano estranei e per lo più inutilizzati. Tali condizioni obbligano a una quotidianità detentiva che si consuma costantemente al chiuso e in condizione di totale infantilizzazione del detenuto, impossibilitato a muoversi autonomamente nella struttura.
L’illuminazione nelle sezioni è garantita artificialmente, quella naturale è ridotta per la presenza di schermature a volte opache e reti metalliche alle finestre per scongiurare il getto in basso di scarti di alimenti. Ovunque le finestre sono tamponate con lastre di plexiglas, inconsistenti e in parte staccate dal loro alloggiamento. I detenuti durante le visite, per lo più, hanno lamentato la claustrofobia degli ambienti nei quali sono ristretti, sottolineando l’insorgere di ansia e la perdita progressiva della vista. Tale fenomeno è conseguente alla mancanza della possibilità di variare la profondità delle visuali, che consente alla retina un regolare funzionamento.
In linea di massima sono entrato in celle ove sono rispettati i 3 metri quadri di spazio pro capite, con l’accortezza, nel caso di cella a due posti, di utilizzare il letto a castello. Resta il fatto, nel caso della cella doppia, di dover condividere per molte ore uno spazio grande poco più della metà di un box auto, dove l’arredo è sciatto e inconsistente e il servizio igienico è anche luogo dove cucinare e conservare alimenti.
L’assenza di verde è ovunque e la permanenza episodica nel tutto cementificato dei cortili di passeggio, pregiudica ulteriormente il benessere psicofisico dei ristretti. Tra le conseguenze dei vizi costruttivi originari più evidenti, ho riscontrato in entrambi i casi, vistosi fenomeni di condensa sulle pareti perimetrali delle celle, causa della mancanza di una adeguata coibentazione dell’involucro edilizio. I servizi igienici delle celle sono sprovvisti di docce e acqua calda, contraddicendo il nuovo regolamento del 2000 che, tra il resto, le prevedeva.
In questo modo, la pena del carcere diventa pena corporale e la Costituzione viene tradita. Necessita pertanto un monitoraggio costante della dimensione architettonica delle nostre carceri ed elaborare proposte per migliorarne le condizioni di vita e di lavoro. Nelle prossime settimane sarà presentato il progetto architettonico per il benessere dei reclusi e operatori del carcere di Como, scaturito da una mia proposta, curato dall’Università Cattolica di Milano e finanziato da Fondazione Cariplo di Milano.
* Architetto, esperto di architettura penitenziaria