02 Ottobre 2021 :
Pasquale Hamel su Il Riformista del 1° ottobre 2021
Già immediatamente dopo la liquidazione del duce e l’ascesa del generale Pietro Badoglio al vertice del governo del Paese il dibattito sul mantenimento o meno della pena di morte tornò, prepotentemente, all’ordine del giorno. La decisione in merito, tuttavia, tardò a essere assunta per le notevoli resistenze che erano subito emerse all’interno della compagine governativa. Per superare l’impasse, visto che il governo non decideva, la magistratura adottò motu proprio una sorta di moratoria in attesa che venisse emanata la norma abrogativa.
Le resistenze in sede di governo erano motivate dalle preoccupazioni per le conseguenze che la cancellazione della pena capitale potevano avere sulla già precaria condizione dell’ordine pubblico. C’era, tuttavia, da tenere conto l’idea che l’Italia del dopoguerra dovesse necessariamente voltare pagina rispetto alle scelte del precedente regime e se dunque il fascismo aveva reintrodotto la pena di morte il ritorno della democrazia non poteva sfuggire all’imperativo categorico dell’abolizione.
Nonostante fosse convinzione generale che la pena capitale dovesse essere cancellata, il governo Bonomi approvava però una normativa che contraddiceva quest’indirizzo. Si trattava della cosiddetta legge fondamentale n.159 del 27 luglio del 1944 che prevedeva la fucilazione per i gerarchi fascisti e per i collaborazionisti dei nazi-fascisti. Un fatto eccezionale dettato dalla congiuntura che il Paese stava vivendo. E tuttavia, poche settimane dopo, su proposta del democristiano Umberto Tupini – uno dei fautori del ritorno al codice Zanardelli – il 10 agosto 1944 veniva emanato il decreto luogotenenziale n.244 che prevedeva, per tutti i reati per i quali era prevista nel codice penale vigente, la sostituzione della pena capitale con l’ergastolo con l’eccezione dei codici militari e della sopracitata legge 159.
Ed arriviamo alla Costituente. Seppure il riferimento alla nobile tradizione giuridico-filosofica abolizionista, che risaliva al Beccaria, fosse argomento prevalente del dibattito alla Costituente, la decisione di dare un taglio netto col passato non fu così semplice. Si temeva, infatti, che una decisione non adeguatamente ponderata accrescesse le difficoltà nell’azione di repressione del crimine. Animarono quella discussione grandi giuristi come Giovanni Leone, Giuseppe Bettiol, Girolamo Bellavista, Giuseppe Dossetti, Aldo Moro e Amerigo Crispo, alcuni dei quali, pur affermando in linea di principio la tesi abolizionista, concentrarono la loro attenzione sulla possibilità, in casi eccezionali, di consentirne il ripristino. Ma l’avere accettato il principio che la pena non dovesse rispondere all’idea di vendetta quanto piuttosto tendere alla rieducazione tagliava ogni possibilità di concionare ulteriormente sull’argomento, almeno per quanto riguardava i delitti comuni, ta
nto da far apparire perfino pleonastico lo stesso quarto comma dell’art. 27 della Costituzione il quale, appunto, disponeva che nel nostro ordinamento “non è ammessa la pena di morte, se non nei casi previsti dalle leggi militari e di guerra”.
Con l’entrata in vigore della Costituzione la lunga storia del processo abolizionista non si fermò. Il 4° comma dello stesso articolo 27 continuava infatti a prevedere quell’eccezione che mal si conciliava con il disegno complessivo offerto dall’architettura costituzionale. In forza proprio di quell’inciso i codici militari continuarono legittimamente a prevedere la pena capitale. Si dovette così aspettare fino al 1994 perché con la legge 13 ottobre n. 589 si disponesse anche per i codici militari la commutazione della pena di morte con l’ergastolo.
Ma detta norma di abolizione, in assenza della modifica costituzionale, prestava il fianco alla possibilità di reintroduzione della pena capitale. E non era un pericolo peregrino visto che un democratico come Ugo La Malfa, in occasione del rapimento Moro, aveva apertamente parlato di ripristino della pena di morte e che il Movimento sociale aveva addirittura promosso nel 1982 una petizione popolare – firmata perfino dal figlio di Giacomo Matteotti – per la sua reintroduzione nei casi di terrorismo. Per sanare l’aporia si dovette procedere a modificare il dettato del 4° comma dell’art.27 della Costituzione. Infatti la legge costituzionale n°1 del 2007 cancellò dall’art.27 l’inciso che ne consentiva l’applicazione relativamente alle leggi militari e di guerra.
In questo lungo e accidentato cammino, conclusosi appunto nel 2007, restava tuttavia la soddisfazione nel sottolineare che, proprio la legislazione italiana con le sue scelte abolizioniste, ancora una volta si
poneva all’avanguardia anche in considerazione del fatto che gli ordinamenti delle grandi democrazie europee, Inghilterra e Francia in testa, continuarono ancora per molti decenni, a contemplare nei loro ordinamenti la pena capitale. Il Regno Unito abolì infatti la pena di morte solo il 18 dicembre 1969, mentre in Francia si dovette attendere addirittura il 9 ottobre del 1981.
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