06 Febbraio 2022 :
Matteo Angioli su Il Riformista del 4 febbraio 2022
Non meritano indifferenza due recenti decisioni in tema di giustizia penale.
In base alla legge britannica sul terrorismo, ad agosto, un 22enne inglese, Ben John, era stato condannato a due anni di carcere per aver scaricato migliaia di testi antisemiti e di suprematismo bianco. Il giudice aveva però sospeso la pena puntando a un percorso davvero alternativo, “condannando” il giovane alla lettura di classici come Shakespeare, Austen e Dickens, e verificandone periodicamente l’auspicata graduale rieducazione. “Sei una persona solitaria con pochi o nessun vero amico”, aveva detto all’imputato, descritto come “facilmente influenzabile”. Per il giudice era un incidente isolato che non aveva recato nessun danno. Il 4 gennaio, nella prima udienza di verifica, lo stesso giudice si era detto incoraggiato dai progressi iniziali compiuti da John.
Di diverso parere l’Avvocato Generale del Regno Unito e deputato conservatore, Alex Chalk, autore di un ricorso contro la sentenza ritenuta eccessivamente indulgente. Il ricorso, sollecitato dall’associazione Hope Not Hate (Speranza Non Odio) che aveva inviato una lettera aperta a Chalk, è stato accolto dalla Corte d’Appello il 19 gennaio, mettendo fine alla libertà condizionale del giovane imputato per il quale si sono aperte le porte del carcere.
Chalk ha dichiarato che il governo “è impegnato a interrompere le attività degli estremisti più pericolosi e a sostenere chi contrasta la retorica dell’odio e a proteggere le persone vulnerabili che vengono trascinate nel terrorismo.”
È lecito chiedersi allora se la forma di protezione migliore per una persona “facilmente influenzabile”, altrettanto vulnerabile, come Ben John, sia il carcere e se non sia sufficiente la libertà condizionale.
Secondo il suo avvocato, John è “un bambino” con una “biblioteca elettronica” che include anche testi marxisti, e la sentenza di custodia cautelare era “del tutto sensata, costruita con cura e appropriata” proprio perché abbinata a un programma di riabilitazione “serio” che aveva già prodotto effetti tangibili.
Hope Not Hate esulta per l’annullamento della “sentenza allarmante” perché non è possibile evitare il carcere per reati che comportano una pena detentiva massima di quindici anni. Ma, se la speranza di superare l’odio passa per il carcere, non c’è speranza.
Negli stessi giorni è stato un “vero” terrorista a far parlare di sé. Il 18 gennaio è scoccato il decimo anno di detenzione di Anders Breivik, l’uomo che nel 2011 compì un doppio attentato in Norvegia uccidendo 77 persone.
Breivik si è avvalso del diritto, maturato dopo dieci anni di detenzione, di chiedere la libertà vigilata. In tribunale ha affermato di aver rinunciato alla violenza ma non alle idee di ostentata ispirazione nazista.
Non avendo mostrato dunque nessun rimorso, il primo febbraio, il giudice ha negato la libertà condizionale e confermato la sentenza di reclusione di 21 anni, pena massima in Norvegia, dove non esiste l’ergastolo. Esiste però una disposizione che consente di prolungare la detenzione, finché il detenuto non sia più giudicato un pericolo.
Breivik si è presentato facendo il saluto nazista e mostrando un cartello con un messaggio inneggiante alla supremazia bianca. Aveva già utilizzato precedenti udienze come piattaforma per denunciare un genocidio dei bianchi in Occidente. Aveva perfino tentato di fondare, dal carcere, un partito fascista contattando per posta i vari Ben John, ma quelle lettere sono state sequestrate dagli agenti penitenziari e aggiunte alle prove del suo mancato ravvedimento.
Giusto, dunque, riflettere sul rischio che tali apparizioni ispirino individui “facilmente influenzabili”. Tuttavia, molti norvegesi sono convinti che il modo migliore per sconfiggere la sua visione del mondo non sia tappargli la bocca, ma dimostrare che il sistema da cui Breivik sostiene di essere oppresso, in realtà, gli sta dando tutte le possibilità di esprimersi, attraverso canali legali attentamente governati. Lo credo anch’io. In Norvegia perfino un criminale come Breivik ha gli stessi diritti di qualsiasi altro cittadino detenuto, inclusi quelli di pensiero e parola.
Di fronte all’efferatezza del crimine commesso e orgogliosamente rivendicato, la società norvegese – tutt’altro che ingenua – si è chiesta, non senza dolore e aspri confronti, se riformare il codice penale introducendo l’istituto dell’ergastolo. Risposta? No, non permetteremo a Breivik di vincere manomettendo i principi e le leggi alla base della nostra democrazia.