24 Luglio 2022 :
Sergio D’Elia su Il Riformista del 22 luglio 2022
La caduta del regime di Omar al-Bashir nell’aprile 2019 aveva fatto ben sperare. Dopo trent’anni di regime condotto col pugno di ferro e la legge della Sharia, il colpo militare in Sudan avrebbe, se non altro, potuto segnare la fine delle punizioni coraniche. Ma il “nuovo” regime non ha cambiato registro. A fianco del Codice militare sudanese, l’esercito ha lasciato in vita il Codice penale islamico.
Con esso è restata in vigore la pena capitale anche per i crimini di Hudud, considerati i più gravi, perché sono rivolti contro Allah.
Apostati, ladri, rapinatori, adulteri, calunniatori e consumatori di alcolici rischiano ancora le sanzioni più arcaiche della storia dei delitti e delle pene. Dall’amputazione di mani e piedi alla fustigazione, dalla morte tramite impiccagione alla morte per lapidazione.
Tra le punizioni islamiche, la lapidazione è la più terribile. Il condannato è avvolto da capo a piedi in un sudario bianco e interrato. La donna è interrata fino alle ascelle, mentre l’uomo fino alla vita. Un carico di pietre è portato sul luogo e funzionari incaricati – in alcuni casi anche semplici cittadini autorizzati dalle autorità – eseguono la lapidazione. La morte deve essere lenta e dolorosa, per cui le pietre non devono essere così grandi da provocarla con uno o due colpi. Se il condannato riesce in qualche modo a sopravvivere alla lapidazione, sarà imprigionato per almeno 15 anni ma non verrà giustiziato. Tra i diciassette Paesi dove la lapidazione è prevista dalla legge o praticata di fatto compare anche il Sudan.
Nel sud del Paese, lo scorso 26 giugno un tribunale di Kosti, nello Stato del Nilo Bianco, ha condannato a morte tramite lapidazione Maryam Alsyed Tiyrab, una donna di 20 anni accusata di adulterio. Si sa molto poco della sua vita personale e della sua famiglia, se non che lei e suo marito si erano lasciati e lei era tornata a casa.
Grazie all’organizzazione per i diritti umani Centro africano per gli studi su pace e giustizia, si sa che le autorità sudanesi hanno compiuto diverse irregolarità che hanno contaminato anche le indagini e il processo. La polizia l’ha presa in custodia, gli inquirenti hanno indagato e interrogato, la donna avrebbe confessato. Nessun avvocato di fiducia l’avrebbe difesa davanti a poliziotti e magistrati. Nessuno l’avrebbe informata che le sue parole durante l’interrogatorio sarebbero state usate contro di lei in tribunale.
A seguito della confessione da lei resa durante l’interrogatorio, il verdetto del tribunale era solo una formalità. L’adulterio è considerato un reato grave nel Paese, un crimine contro la “morale pubblica” e la “virtù della donna”. Seduta stante, il tribunale ha emesso una condanna alla lapidazione.
Una pena di morte per adulterio non veniva comminata in Sudan dal 2013, quando una donna nel Kordofan meridionale è stata arrestata per adulterio e condannata alla lapidazione.
La sentenza nei confronti di Maryam segna un ritorno al passato, ai tempi del terrore politico e penale imposto dalla dittatura di Omar al-Bashir. Essa deve essere ancora approvata dalla Corte suprema, che ha una storia di ribaltamento delle decisioni di lapidazione contro le donne condannate. Ma, intanto, la donna rimane in attesa… che qualcuno scagli la prima pietra.
A coloro che gli avevano condotto un’adultera con la speranza che egli ordinasse di lapidarla – racconta il Vangelo secondo Giovanni: 8,3[1] – Gesù Cristo disse «chi tra voi è senza peccato scagli la pietra per primo». Nessuno osò scagliare pietre. Tutti, a partire da quelli più anziani, abbandonarono il proposito e si ritirarono in pace. Una parabola perfetta contro la morte per lapidazione: siano usate, le pietre, per costruire case, ponti, città, non per “fare giustizia”, “reprimere il vizio” e “promuovere la virtù”.
A ben vedere, è una parabola che va oltre la giustizia che lapida a morte. È un monito a “non giudicare” l’altro prima di aver fatto un esame di coscienza di se stesso. Ancor di più, è un invito ad abbandonare la logica manichea del diritto penale, della lotta tra il bene e il male, del delitto e del castigo. Un abisso di umanità e civiltà divide la buona novella di duemila anni fa dalla storia – non malsana, ma ordinaria – della giustizia contemporanea. Quella degli avvisi di garanzia, dei giusti processi, dei giudizi definitivi e degli umani castighi, notificati, celebrati, lanciati come se non fossero, anch’essi, pietre mortali. A volere essere umani e civili, occorrerebbe definitivamente uscire dal “sistema di lapidazione” insito nel giudizio, dal principio di diritto penale da cui tutto origina e da cui tutto consegue in una catena senza fine di violenze, sentenze, sofferenze.