24 Dicembre 2023 :
Elisabetta Zamparutti su L’Unità del 24 dicembre 2023
Nessuno tocchi Caino è quella bussola che permette di orientarsi anche quando il cielo si fa cupo, il vento ruggisce e la tempesta avanza a passi pesanti sulle relazioni umane. Orienta perché aiuta a vedere nelle tenebre il punto estremo a cui può arrivare il comportamento umano. E lì, su quell’eccesso di conseguenze, allestisce una sala dove interrogare la coscienza per trarne lumi.
Tra le relazioni umane quella tra detenute madri e figli piccoli è indubbiamente una delle più delicate. Specialmente se la donna aspetta un bambino o questo è molto piccolo. Una delicatezza che il Codice Rocco ha considerato tale da dover, saggiamente, comportare il differimento dell’esecuzione della pena se la donna era in gravidanza o con bambini di età inferiore a tre anni. Qualche giorno fa mi chiedevo dove possa portare l’esortazione “Avanti così!” con cui Salvini ha commentato la recente proposta di calpestare il rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena nei confronti di donne (il riferimento è alle borseggiatrici Rom) in tali condizioni.
Ecco allora che da un Paese che non fa molto parlare di sé, il Bangladesh, arriva una notizia relativa proprio a un punto estremo, un eccesso, oserei dire uno scandaloso possibile approdo di questo delicato rapporto tra detenute madri e figli. In Bangladesh esiste ancora la pena di morte. L’anno scorso sono state condannate a morte almeno 169 persone e 4 sono state impiccate. La cosa non fa notizia. Non si era mai sentito però che in un braccio della morte ci potesse essere anche una bambina. Eppure è successo. Perché Mahida, che ha 10 mesi, dal 26 ottobre sta nel braccio della morte con sua mamma Husna Akter dopo che il Tribunale per le donne e i minori di Habiganj l’ha condannata alla pena capitale, con altri quattro componenti della sua famiglia, per aver ucciso Ayesha Akter a Chunarughat.
In Bangladesh i condannati a morte stanno sempre chiusi in cella, monitorati 24 ore su 24 fino all’esecuzione. E così Mahida se ne sta chiusa nella cella del braccio della morte del carcere di Habiganj con sua mamma e altre due condannate a morte, tutte recluse in uno spazio che misura circa 9 metri quadrati, dove l’unica finestra è sbarrata con delle assi, dove l’acqua corrente è un miraggio e non ci si può in alcun modo difendere dalle zanzare. Secondo il Daily Star, la bambina avrebbe perso due chili da quando è entrata in carcere. Un calvario di cui non è dato conoscere il momento finale poiché non si sa quando la Corte d’ultima istanza si pronuncerà per rendere definitiva la sentenza e dunque il momento dell’esecuzione.
La vicenda è talmente scandalosa che la Corte Suprema, investita del caso dall’avvocato Tanvir Ahmed che ha agito in nome del pubblico interesse, il 18 dicembre ha chiesto alle autorità di spiegare, entro quattro settimane, come sia possibile che bambini siano costretti a vivere in queste condizioni senza alcuna tutela, attenzione, cura specifica. Il fatto non è circoscritto a Mahida perché risultano esserci 304 bambini reclusi con le proprie madri nelle 68 carceri del Bangladesh.
Husna, la mamma di Mahida, non è una borseggiatrice Rom.
Non ha sfilato un portafoglio dalla tasca di un ignaro passeggero su un autobus. Ha, almeno secondo la sentenza, sfilato la vita dal corpo di un’altra persona. Non basta però questo a far sì che, interrogando la coscienza, la risposta sia che Mahida si merita il trattamento a cui è, suo malgrado, sottoposta.
E se è insopportabile per lei come possiamo accettare che lo sia per bambini costretti dietro le sbarre per fatti assolutamente minori in nome e per conto dei quali i capitani conducono la nave dello Stato di Diritto a incagliarsi negli scogli della sicurezza?
Marco Pannella, più volte parlando delle riforme del codice penale, ha detto che la classe dirigente italiana in fin dei conti altro non ha fatto nel corso dei decenni che peggiorare il Codice Rocco. Ha ancora ragione.
E allora, dico “Indietro tutta!”. Torniamo al codice Rocco ma anche prima ancora, ai testi millenari dove sta scritto “Nessuno tocchi Caino” e “Chi giudica chi” a indicare una soglia di intangibilità della dignità umana che non confonde l’uomo con il suo reato e lascia la speranza anche per Caino di divenire padre di molti popoli e costruttore di città.