MAFIA, LA CONTRADDIZIONE DI UN’EMERGENZA LUNGA TRENT’ANNI

06 Marzo 2022 :

Alessandro Morelli* su Il Riformista del 4 marzo 2022

Lo “stato di emergenza” iniziato con la “dichiarazione di guerra” dell’Italia alla Mafia, dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, quest’anno compie trent’anni, ricorda Sergio D’Elia nella sua intensa prefazione al volume curato da Pietro Cavallotti, Lorenzo Ceva Valla e Miriam Romeo, dal titolo Quando prevenire è peggio che punire. Torti e tormenti dell’inquisizione antimafia, edito da Reality Book e il Riformista (2022).
Un’emergenza che dura da trent’anni è una contraddizione in termini. In una sentenza del 1982, riguardante la carcerazione preventiva, i cui tempi erano stati dilatati in ragione di un’altra situazione straordinaria (quella determinata dal brigatismo), la Corte costituzionale dichiarò che “l’emergenza, nella sua accezione più propria, è una condizione certamente anomala e grave, ma anche essenzialmente temporanea. Ne consegue che essa legittima, sì, misure insolite, ma che queste perdono legittimità, se ingiustificatamente protratte nel tempo”. Il giudizio a conclusione del quale fu emessa tale pronuncia (che fece salva la disciplina allora vigente) era stato originato, tra gli altri, dal caso di Giuliano Naria, sottoposto a carcerazione preventiva per più di nove anni e poi assolto con formula piena.
La temporaneità è, peraltro, una condizione necessaria ma non sufficiente a rendere compatibile uno stato di emergenza con i principi della nostra Costituzione e del diritto internazionale. L’emergenza, infatti, non è la dimensione dell’irrazionalità e dell’arbitrio: essa altera il contesto entro il quale sono condotti i bilanciamenti tra i valori in campo ma non legittima l’adozione di misure palesemente sproporzionate e irragionevoli. Che sia così lo si evince, per esempio, dalla disposizione riguardante la più drammatica condizione di emergenza espressamente prevista dai Costituenti: la guerra. L’articolo 78 della Costituzione stabilisce che quando le Camere deliberano lo stato di guerra, esse conferiscono al Governo i “poteri necessari”, non i “pieni poteri”. E la necessarietà esprime un criterio di proporzionalità che deve essere tenuto presente anche quando è in discussione la stessa sopravvivenza dello Stato.
Il diritto emergenziale antimafia, che trova alcune delle sue articolazioni più importanti nelle norme sulle misure di prevenzione, sulle informazioni interdittive e sullo scioglimento dei comuni per infiltrazioni, finisce con l’identificare nella prevenzione l’azione più efficace (e, quindi, sufficiente) della lotta alla criminalità organizzata. La prevenzione, tuttavia, non consente un accertamento adeguato dei fatti, si accontenta di un’osservazione sommaria, alimentando così una sempre più diffusa cultura del sospetto, espressione di un dilagante populismo penale e giudiziario. Si tratta di un diritto emergenziale che, come si evince dalle riflessioni sviluppate e dalle tante storie di tragici errori raccontate nel libro, appare ispirato da un principio di presunzione di colpevolezza che non si pone soltanto in contrasto con l’opposta indicazione contenuta nell’articolo 27 della Carta costituzionale e con i dettami del “giusto processo”. In discussione è innanzitutto il principio di solidarietà, che nel disegno dei Costituenti funzionalizza l’adempimento dei doveri inderogabili di cui parla l’articolo 2 e pone le basi etiche e giuridiche della coesione sociale e politica: quale spazio residua a tale istanza in una società dominata dalla cultura del sospetto? E in crisi sono anche il principio democratico e gli altri che con esso fanno sistema (come quelli di autonomia e di sussidiarietà): “dove la mafia notoriamente esiste – scrive D’Elia – e, perciò, per una sorta di incompatibilità ambientale, vengono annullati per decreto il confronto politico, le procedure democratiche, la partecipazione popolare, le elezioni. […] Il messaggio è devastante: le istituzioni più vicine ai cittadini – consigli comunali, giunte e Sindaci – sono forme anacronistiche della vita politica. La democrazia stessa è considerata un sistema superato”.
Non si discute la necessità di una legislazione e di azioni repressive adeguate a fronteggiare efficacemente il fenomeno mafioso. Si ritiene però che la lotta alla Mafia possa e debba svolgersi entro il perimetro della legalità costituzionale e nel rispetto dei diritti fondamentali. Che sono innanzitutto quelli dei più deboli. Se la guerra contro la Mafia è innanzitutto difesa dei deboli contro poteri criminali forti, sua premessa indefettibile è il riconoscimento dei soggetti deboli. Come ha scritto Luigi Ferrajoli, nella dimensione del diritto penale il debole, nel momento del reato, è la vittima; nel processo è l’imputato; nella fase dell’esecuzione penale è il condannato. Marcare con decisione la differenza tra i fini perseguiti e i mezzi impiegati dallo Stato e quelli della Mafia è il primo passo per vincere la guerra.
* Ordinario di Diritto pubblico, Università di Messina

 

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