23 Maggio 2024 :
Sergio D’Elia
Ci sono delle scene iconiche nella storia radicale di lotte nonviolente. Le più note sono quelle degli scioperi della fame e della sete, quelle delle disobbedienze civili e delle obiezioni di coscienza. Meno note sono quelle di resistenza passiva alle forze dell’ordine, nei sit-in, nei cortei e nelle manifestazioni di piazza. Ce n’è una di Marco Pannella steso per terra a Roma in mezzo a via della Conciliazione col cartello e la scritta “beato chi ha fame e sete di giustizia”. Un’altra lo mostra steso per terra col cartello al collo con su scritto “di naja si muore” e il capo incastrato tra la ruota e il parafango di un autobus che aveva bloccato al centro della carreggiata. Una volta, davanti al Parlamento europeo, vestito stile Al Capone, col doppiopetto gessato, la camicia bianca e la cravatta, Marco fu portato via dalla piazza come un peso morto da quattro poliziotti.
Marco Pannella non c’è più; come si suol dire: è venuto a mancare. Ma come pensava Aldo Capitini – contro il luogo comune che il morto è morto e non torna mai più – “i morti non ritorneranno perché non sono mai andati via”. Ricorrono quest’anno e in questi giorni gli anniversari di persone a noi care: il trentennale di Mariateresa Di Lascia, la fondatrice di Nessuno tocchi Caino, il trentaseiesimo di Enzo Tortora, il simbolo della lotta per la giustizia giusta, l’ottavo di Marco Pannella, l’uomo della speranza contro ogni speranza. Mariateresa, Enzo e Marco non se ne sono mai andati, sono qui, compresenti, nella ispirazione e nell’azione dei militanti radicali, nonviolenti, transnazionali e transpartici di Nessuno tocchi Caino.
La nostra Presidente, Rita Bernardini, in questi giorni è in giro per la Sicilia e la Sardegna a onorare il posto di capolista per “Stati Uniti d’Europa”. La sua campagna elettorale è scandita dai tempi e gli obiettivi di uno sciopero della fame che ha deciso di riprendere per cercare di portare un po’ di ristoro, di amore, di conoscenza in un luogo di questa povera Italia, che è di privazione non solo della libertà ma di tutto, della salute fisica e psichica e anche della vita. Anche Rita ha nella sua biografia immagini iconiche di lotte nonviolente. In una foto la vedi avvolta da una selva di piante di marijuana coltivata a domicilio. In un’altra la vedi distribuire il raccolto a fini terapeutici ai malati condannati dall’ipocrisia proibizionista a soffrire e morire senza il minimo sollievo. Ma la foto per me più bella la ritrae giovanissima radicale a Piazza San Pietro come Pinocchio tra due agenti di polizia che se la portano via, manifestante non autorizzata, resistente passiva all’ordine costituito vaticano e italiano.
A proposito di “legge e ordine”, nonviolenza e resistenza passiva, alcuni giorni fa siamo stati auditi come Nessuno tocchi Caino dalle Commissioni Affari costituzionali e Giustizia della Camera dei deputati che sta esaminando l’ennesimo disegno di legge detto “sicurezza”. Ci sono cose buone e giuste come quelle in materia di lavoro in carcere. Ma poi c’è, immancabile, la batosta sanzionatoria a tutela dell’ordine e della sicurezza nelle carceri. In un istituto di per sè penitenziario si pensa che legge e ordine possano essere assicurati dalla minaccia di ulteriori pene e dalla esclusione dai benefici penitenziari.
C’è da tremare ogni qualvolta a un articolo del codice penale o penitenziario si aggiunge un articolo “bis”. L’Italia-culla-del-diritto ha già fatto le spese dei famigerati 416 bis, 41 bis, 4 bis. Ora, al reato di “Istigazione a disobbedire alle leggi” previsto dall’articolo 415 del codice del Ventennio, il parlamento della Repubblica aggrava: “la pena è aumentata se il fatto è commesso all’interno di un istituto penitenziario ovvero a mezzo di scritti o comunicazioni diretti a persone detenute”. Dopo l’articolo “fascista” ecco subito quello “democratico” inventato dalla nuova legge: il 415-bis, che introduce il reato di “Rivolta all’interno di un istituto penitenziario”, che può essere consumato “mediante atti di violenza o minaccia, di resistenza anche passiva all’esecuzione degli ordini impartiti”. Resistenza anche passiva!
Il sovraffollamento sta sfiorando la soglia critica di dieci anni fa, quando con la sentenza Torreggiani l’Italia è stata condannata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per sistematici trattamenti contrari al senso di umanità nelle carceri. Le presenze di detenuti nei 189 istituti penitenziari hanno superato ormai la quota di 61.000 persone stipate in 47.500 posti disponibili. E ogni mese i detenuti aumentano di oltre 450 unità. Un trend che ci porterà a fine anno agli stessi livelli per i quali nel 2013 intervenne la giustizia europea. Un’altra condanna sarebbe un’onta per lo Stato italiano, un marchio indelebile, tal quale quello che di solito bolla il cittadino comune come recidivo, un delinquente abituale, professionale o per tendenza.
E’ impossibile, nelle condizioni di sovraffollamento attuali, rispettare l’articolo 27 della Costituzione italiana e l’articolo 3 della Convenzione europea, pianificare qualsiasi obiettivo di rieducazione e inserimento sociale. Il carcere è un ecosistema limitato, non può cresce all’infinito. Non è solo una questione di rispetto di diritti umani fondamentali, ma delle elementari leggi della fisica, del rispetto della capacità di carico di un sistema. Il suo contenuto umano, la dignità e il recupero delle persone, la loro vita e il loro reinserimento sociale, non interessano? Ma qui, oggi, è il contenitore stesso a non bastare più, perché ha superato la sua capacità di carico. Ci vorrebbero consistenti atti di clemenza come amnistia e indulto, riforme strutturali necessarie e urgenti per contenere il sovraffollamento nelle carceri e il sovraffollamento nei tribunali paralizzati da 5 milioni di processi penali pendenti. Il minimo sindacale dovrebbe essere aumentare i giorni di liberazione anticipata per buona condotta, come prevede la proposta di legge di Roberto Giachetti e di Nessuno tocchi Caino che avrebbe il doppio vantaggio di ridurre il sovraffollamento e di mantenere l’ordine pubblico interno nelle carceri.
Ma, invece di misure volte a ridurre il sovraffollamento e a incentivare e premiare i comportamenti virtuosi dei detenuti, il disegno di legge governativo prevede aumenti di pene e nuove fattispecie criminose. La soluzione offerta dal governo ai detenuti e ai detenenti è: “sorvegliare e punire”. Il messaggio è devastante: non vogliamo o non possiamo migliorare le condizioni di vita nelle carceri, allora, puniamo chi a queste condizioni di vita si ribella. E puniamo non solo i violenti, ma anche i disobbedienti e i resistenti passivi, non solo gli istigatori a delinquere, ma anche gli oppositori pacifici, gli obiettori di opinione e di coscienza.
Nella teoria e nella prassi della nonviolenza radicale, tra le le forme di non collaborazione col potere è contemplata anche la resistenza passiva, soprattutto quando il potere costituito non rispetta le sue stesse leggi costituzionali, quando il potere mostra la sua faccia feroce. E’ forza gentile e mite ma anche “intollerante” quella della nonviolenza. Come diceva Mariateresa Di Lascia, la nonviolenza non significa “tollĕre”, distogliere lo sguardo, voltarsi da un’altra parte, tollerare, sopportare cose, fatti, situazioni che sono intollerabili.
Il rifiuto del vitto dell’amministrazione, la battitura delle pentole sulle sbarre, il mancato rientro in cella dall’ora d’aria in segno di protesta per le condizioni inumani e degradanti del carcere, la promozione o partecipazione o semplice propaganda di queste forme di lotta, non sono molto diverse dagli scioperi della fame, dai sit-in o da altre manifestazioni storicamente proprie della prassi radicale, e anche sindacale. Avviso, quindi, ai legislatori: prima di votare questa legge, consultate gli archivi di Radio radicale, guardate le foto delle marce antimilitariste, ritornate sulle scene di lotta e resistenza nonviolenta. Pensate a Marco Pannella.