17 Settembre 2022 :
Sarah Brizzolara su Il Riformista del 16 settembre 2022
Ho visitato per la prima volta un carcere nei giorni di ferragosto, come Consigliera Comunale di Monza. Qualche giorno prima, a San Quirico, nel carcere della mia città, un detenuto di 24 anni si era tolto la vita. Era in prigione dal 2018 e mancavano due anni al suo fine pena. Era il terzo suicidio da inizio anno nella Casa circondariale di Monza e la notizia aveva provocato una mezza rivolta di molti altri detenuti.
Ho visitato un luogo di confine, di transito, dove arrivano e stanno tutti coloro che la nostra comunità ha lasciato indietro. È uno specchio che riflette la società attuale, troppo frenetica per creare legami, aiuti e reti di supporto verso il prossimo. Indubbiamente il carcere di Monza, come tutte le altre carceri d’Italia, soffre del problema del sovraffollamento. Oltre la metà dei detenuti sono stranieri, e molti hanno enormi difficoltà culturali e linguistiche. Lo abbiamo visitato tutto. Dai blocchi nuovi a quelli più vecchi, i cui muri hanno visto passare più storie e più intrecci di vite. Sicuramente quello che colpisce sono le persone, il loro vissuto.
Non puoi fare a meno di riflettere sul perché non sei tu al loro posto. E ti senti sicuramente privilegiato. Perché sai che alla fine tu uscirai, e ad aspettarti ci sarà una casa con tutti i confort, che magari spesso sottovaluti.
Parli con i detenuti. Ti colpisce un ragazzo in particolare, della Repubblica Dominicana, che sta lì nella sua cella seduto e ti fissa con degli occhi pieni di rabbia. C’è tanta rabbia in carcere. Ma c’è anche tanta umanità. Parlando capisco che ha la mia stessa età e dice di essere dentro perché ha tentato due volte di compiere un omicidio. E li ti chiedi quali strade hai percorso tu così diverse rispetto a lui. E se magari potevi esserci tu al suo posto.
Ci sono varie sezioni super controllate. I lunghi corridoi vuoti che collegano le varie sezioni si chiamano tangenziali. Ho parlato con la direttrice e il capo degli agenti penitenziari. Ci hanno sottolineato tutti i problemi legati alla salute mentale che hanno i detenuti e le difficoltà e la carenza di personale per poter realizzare per loro delle terapie serie e con una prospettiva di lungo periodo. Il reparto psichiatrico è forse quello più emotivamente denso. Poche celle, singole, piccole e spoglie. Con persone dagli sguardi persi. Alcuni carcerati a un certo punto ci hanno con gentilezza fatto capire che era il momento per la loro partita a calcetto settimanale. Un momento magico.
A Monza alcuni detenuti possono partecipare a laboratori per imparare diversi lavori per reinserirsi un domani. Hanno un orto, possono lavorare con diverse aziende esterne per assemblare cartellette per la scuola e bulloni, lavorare i tessuti, scannerizzare gli Archivi storici della Cassazione di Milano e lavorare il legno per creare arredi in collaborazione con il Politecnico di Milano. Riguarda ancora troppo pochi, ma è una strada, fondamentale, importante.
Raccontare il carcere solo come un luogo di pazzi e di rivoltosi non aiuta a far entrare le aziende in questa realtà, ma credo che il Comune possa e debba implementare le reti con le aziende, contribuire a rilanciare progetti per rilanciare la serra e la sala della musica. E allora emergono gli sguardi. Sguardi di detenuti che hanno una prospettiva. Che vedono un orizzonte oltre i loro sbagli, quelle mura. Che vivono nelle celle più nuove nell’area dell’ex carcere femminile che è stato finito di ristrutturare a fine luglio. Sguardi. Sguardi di una speranza che chiama il nostro impegno.
E la necessità di far conoscere e far capire che se un detenuto in carcere riceve un trattamento umano e positivo, esce migliore; che ci sussurra che la paura crea solo odio e che quest’ultimo alimenta la contrapposizione; quella coscienza che ci sussurra che il diverso siamo noi e che il carcere è solo il modo per lavarci quella stessa coscienza nel momento in cui non è alimentata dalla conoscenza.
È molto facile l’appiattimento di tutto verso il basso, è facile dire che un delinquente deve andare in carcere e rimanerci, è facile schiacciare ancora più in basso chi striscia per terra. Di contro è facile anche scadere nel buonismo a prescindere, ci si sente redenti e fiduciosi del prossimo, unici. E quindi è anche facile e comodo mettere etichette e categorie, ci semplifica la vita, ci aiuta a mettere ordine nel nostro ragionamento. Ma non si può fare per gli esseri umani. Per gli esseri umani bisogna provare ad andare oltre, dare ad ognuno la possibilità di divenire, di essere diverso, di cambiare.