L’ORRORE REGNA IN IRAN. LA SPERANZA È VIVA IN AFRICA

24 Dicembre 2023 :

Sergio D’Elia su Il Riformista del 22 dicembre 2023

L’anno se ne sta andando nel peggiore dei modi per chi ama la libertà, il diritto, la vita. L’orrida notizia della esecuzione di Samira Sabzian, la sposa bambina che si trovava in carcere in Iran da circa dieci anni, condannata alla pena capitale per avere ucciso il marito violento, è la cifra di un regime tra i più oscurantisti e violenti esistenti sulla faccia della terra. Un regime che vorrebbe riportare ad Allah il Grande l’origine e il fondamento del suo potere politico, ma in realtà quel Dio lo profana ogni giorno. Anzi, nei bracci dei condannati a morte, lo impreca più di due volte al giorno se teniamo conto che quest’anno, a oggi, le esecuzioni in Iran sono state almeno 821. Nel paese più boia tra i paesi boia, sono stati appesi alla forca stupratori e donne vittime di violenze domestiche, piccoli spacciatori e oppositori politici, ragazzi minori di diciotto anni e appartenenti alle minoranze etniche del paese, dai kurdi ai baluci di religione sunnita, nemici giurati perseguitati dagli sciiti al potere.
Che l’Iran sia un regime oscurantista e violento è noto da tempo. Ma per cambiarlo occorre cambiare innanzitutto noi stessi, noi, Paesi cosiddetti democratici, che con la nostra compiacenza abbiamo contribuito a farlo durare quel regime, oscuro e violento come è sempre stato, nel tempo. Giustamente, ci indigniamo di fronte all’orribile esecuzione di Samira, ma occorre fare di più per fermare l’orrore. Occorre porre fine alla politica di accondiscendenza con il regime sanguinario dei Mullah e sostenere i movimenti di opposizione che si riconoscono nei principi dello Stato di Diritto. La stragrande maggioranza dei Paesi mantenitori della pena di morte sono Paesi autoritari e illiberali come l’Iran. Il 99 per cento delle esecuzioni al mondo è compiuto in questi Paesi. Negli ultimi dieci anni sul terribile podio dei primi tre Paesi-boia sono sempre saliti Cina, Iran e Arabia Saudita. Che siano regimi religiosi o regimi senza religione, la pena di morte è pratica comune, politica, di massa.
Non ci consola il fatto che sull’altra faccia della terra, nel mondo occidentale, libero, democratico, la pratica dell’occhio per occhio sia ridotta al minimo. Anzi, nelle cosiddette “democrazie occidentali” come gli Stati Uniti, il Giappone, la Corea del Sud, Taiwan dove le esecuzioni capitali sono rare se non del tutto inesistenti, la pena di morte ci appare più grave e inaccettabile. Essa è un esempio paradigmatico di come scopi giusti – esigenze di giustizia, sicurezza, tutela delle vittime di reato – possano essere traditi quando sono perseguiti con mezzi sbagliati. Nel nome di “legge e ordine” anche uno Stato democratico può generare Caini o diventare esso stesso Caino! In una democrazia, che dal male non è immune, dovrebbe però essere un imperativo cambiare registro, adottare un modo di pensare, di sentire e di agire radicalmente nonviolento. Fare leva sulla forza della parola e del dialogo, della speranza e, innanzitutto, dell’amore che è il principio attivo della nonviolenza.
Sembra un paradosso che questo cambio di paradigma sia avvenuto invece nel continente dove la storia millenaria di Caino e Abele ha avuto le rappresentazioni più crudeli. Dove il fratricidio all’origine della storia ha conosciuto dimensioni mostruose. Dove il dominio dell’uomo sull’uomo ha preso forma nella schiavitù e nella segregazione razziale. Il bello della storia recente è che il motto visionario “nessuno tocchi Caino” della Genesi e l’imperativo messianico “non giudicare!” del Vangelo, si sono inverati proprio nelle terre dove Caino più ha abitato, più ha ucciso, più ha segregato Abele. Le buone novelle della abolizione della pena di morte nell’ultimo anno sono giunte quasi tutte dall’Africa.
La Guinea Equatoriale l’ha abolita ponendo fine anche a una tradizione di capi di stato della stessa genia e con la stessa mania, quella di regolare i conti anche famigliari con le congiure di palazzo e i plotoni di esecuzione.
Lo Zambia ha smantellato per sempre la forca eretta dai coloni inglesi nel carcere di Mukobeko. Nella lingua locale, Mukobeko significa “punizione”. L’abolizione della pena di morte, punizione corporale suprema, è stata decisa un anno fa alla vigilia di Natale. Quale modo migliore per ricordare la venuta al mondo dell’uomo che ammonisce “Non giudicare!”. Per rompere la catena senza fine del delitto e del castigo, della violenza e della pena.
L’ultima buona notizia è giunta in un giorno di mezza estate di quest’anno dal Ghana, diventato il 29° Paese ad abolire la pena di morte in Africa. L’opera di misericordia corporale della fine della morte come pena, è stata compiuta nel giro di quarant’otto ore, alla fine di luglio 2023. La sorte di 170 uomini e 6 donne nel braccio della morte è cambiata da un momento all’altro: dalla condanna a morte alla condanna a vita… che, comunque, è sempre una vita da vivere in cui continuare a sperare contro ogni speranza.
Anche Nessuno tocchi Caino ha svolto la sua parte nell’abolizione della pena capitale in Guinea Equatoriale, in Zambia e in Ghana. Il suo “viaggio della speranza” dalla violenza alla guarigione, dalla guerra civile alla riconciliazione civile, ha attraversato in questi anni anche il continente nero. Così, il racconto di una storia di Caino e Abele di segno diverso, di conversione da una giustizia che punisce e separa a una che unisce e ripara, ha finalmente portato molti paesi africani a liberarsi dei plotoni di esecuzione e delle forche, gli ultimi relitti dell’era coloniale.

 

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