22 Novembre 2025 :
Sergio D’Elia su l’Unità del 22 novembre 2025
La prigione della città di Tabuk si trova nell’estremo nord dell’Arabia Saudita, ha le pareti colorate di rosa, il muro di cinta è basso, dietro il muro spicca una palma e qua e là sulla facciata si aprono piccole finestre irregolari. Se non fosse per le camionette, i blocchi di cemento e il filo spinato, non diresti che è una prigione. E che nella prigione c’è un reparto molto isolato, soprannominato “ala della morte”. Un anno fa le autorità hanno iniziato a trasferire i condannati a morte e la sezione si è subito affollata. Lì i prigionieri aspettano la fine dei loro giorni che può arrivare improvvisa ogni giorno.
Nel braccio della morte l’aria è ferma, il respiro sospeso, il silenzio tombale. La prigione si anima di tetre presenze nei momenti della mietitura mortale, quando sulla piazza della moschea il boia ha già sguainato la spada per falciare le teste sul ceppo in nome di Allah. Quando i guardiani montano in sezione più numerosi del solito, le anime in pena sanno che è giunta l’ora per uno di loro. Lo squadrone della morte irrompe nella cella, a bassa voce chiama un detenuto, gli sussurra qualcosa all’orecchio e lo accompagna fuori. Alcuni scoppiano in lacrime, altri chiedono perdono, chi rimane tira un sospiro di sollievo e spera in un altro giorno di vita, in attesa della morte.
Questo è il destino di centinaia di cittadini stranieri condannati a morte in Arabia Saudita per reati di droga non violenti. Non tutti sono dei narcotrafficanti internazionali, alcuni hanno accettato di portare la droga in cambio della miserabile promessa di poche centinaia di dollari. Molti erano probabilmente innocenti o ignoranti costretti a trafficare. Migranti egiziani detenuti nell’ala della morte del carcere di Tabuk hanno denunciato confessioni forzate, torture e l’impossibilità di permettersi avvocati per difendersi.
Una sospensione temporanea delle esecuzioni per casi di droga, annunciata nel 2021 sotto il governo di Mohammed bin Salman, ha fatto sperare in una riforma. Con questo annuncio, il principe ereditario si è fatto bello agli occhi del mondo. Invece, il divieto è stato revocato un anno dopo, seguito da un’ondata terrificante di esecuzioni. Dall’inizio del 2024, secondo i dati condivisi da Reprieve, almeno 264 stranieri sono stati giustiziati per droga. Si trattava per lo più di persone povere, emarginate, abbandonate da dio e dagli uomini. Dal 1° gennaio al 3 novembre di quest’anno, il Regno saudita ha giustiziato altre 319 persone, di cui 219 per reati di droga non violenti, 57 per omicidio, 29 per reati di terrorismo non letali, 9 per reati letali di terrorismo, 3 per reati sessuali e 2 per stregoneria.
In passato, le guardie avvisavano in anticipo i detenuti dell’imminente esecuzione, permettendo loro di fare la doccia, le abluzioni prima della preghiera, chiamare i propri cari per un ultimo saluto. Ma alcune famiglie affermano di essere state informate solo in seguito. La maggior parte dei condannati è stata sicuramente decapitata, alcuni sono stati passati per le armi di un plotone di esecuzione. Ma non c’è certezza poiché i corpi non vengono restituiti, ai parenti arriva solo un certificato di morte.
Il quotidiano britannico The Guardian ha raccolto le testimonianze di famigliari di condannati a morte egiziani detenuti a Tabuk. Ahmed Younes Al-Qayed lavorava in un hotel quando fu arrestato nel novembre 2016, all’età di 32 anni, con l’accusa di traffico di droga. Nel dicembre dello scorso anno, era uno dei 33 egiziani detenuti per droga nell’ala della morte del carcere. Dopo che Mohammed bin Salman ha annunciato la sua moratoria delle esecuzioni, un avvocato d’ufficio ha comunicato alla famiglia che la sua condanna sarebbe stata commutata in ergastolo. Ahmed ha iniziato a credere di poter sopravvivere. Ma subito dopo il suo arrivo nel reparto dei condannati a morte, le esecuzioni sono iniziate. Era chiaro che nessuno sarebbe stato risparmiato. Per Ahmed, la fine è arrivata il 3 dicembre 2024, un mese dopo l’inaugurazione del braccio della morte di Tabuk. Quando la porta della cella si è aperta, il cuore dei detenuti è salito in gola. Le guardie si sono avvicinate ad Ahmed e altri due egiziani. Con calma i tre sono stati incatenati e portati al patibolo. Gli altri sono rimasti paralizzati ma ancora in vita, nella cella della morte. Ahmed è stato il primo del gruppo a morire. Dei 33 egiziani condannati a morte per traffico di droga, che erano vivi nel reparto un anno fa, 25 sono stati poi giustiziati, gli ultimi due il 21 ottobre di quest’anno.
È così che, in poco tempo, l’Arabia di Bin Salman ha raggiunto un triste primato mondiale. A furia di teste mozzate a colpi di spada, il suo Regno è salito sul podio poco olimpico dei primi paesi boia al mondo. Al terzo posto, dopo la Cina e l’Iran.








