12 Febbraio 2022 :
Giovanni Francesco Fidone su Il Riformista del’11 febbraio 2022
Il recente intervento dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 3 del 28/01/2022 ha aperto un importante dibattito sul tema delle interdittive antimafia, affrontando la questione della legittimazione di amministratori e soci di una persona giuridica a impugnare le misure prefettizie, ponendo una pietra tombale sulla vexata quaestio.
La vicenda nasce, infatti, da un dibattito giurisprudenziale che ha visto, nel corso degli anni, contrapporsi due orientamenti. Da una parte, un primo orientamento “rigorista” ha ritenuto che soltanto l’impresa destinataria del decreto prefettizio abbia legittimazione attiva a impugnare un’interdittiva antimafia. Dall’altra parte, un secondo orientamento ha invece riconosciuto un interesse morale che si traduce nella legittimazione attiva al ricorso anche da parte di ex amministratori o parenti menzionati nel provvedimento come soggetti che, in qualche modo, hanno determinato l’emissione della misura antimafia.
Oggi l’Adunanza Plenaria scioglie il nodo interpretativo aderendo alla tesi più severa: “gli amministratori ed i soci di una persona giuridica destinataria di interdittiva antimafia non sono titolari di legittimazione attiva all’impugnazione di tale provvedimento”. Il ragionamento di Palazzo Spada è molto semplice: il provvedimento prefettizio può essere impugnato solo ed esclusivamente dal soggetto che ne patisce gli effetti diretti e, quindi, dal destinatario dell’atto, e cioè dalla società, in quanto solo il destinatario subirebbe la lesione immediata e diretta alla propria posizione giuridica soggettiva. Senza voler muovere alcuna critica alla sentenza che rappresenta, peraltro, la lettura più aderente al dato normativo della fattispecie, le conseguenze applicative di un simile orientamento meritano molto più di una riflessione.
Solo chi non ha mai avuto a che fare con un’interdittiva, può pensare che l’istituto in alcuni casi non travolga, come la peste bubbonica, non soltanto l’impresa ma anche le vite di amministratori, soci, parenti e talvolta anche amici (si, è proprio così), con un meccanismo a cascata degno, per usare le parole di una celebre sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, di un “regime di polizia”.
E allora, siano sufficienti due esempi, fra tutti, per comprendere la portata storica della pronunzia.
È fatto notorio che, molto spesso, alla misura interdittiva segua il commissariamento dell’impresa: in questo caso, considerato che un commissario non avrebbe alcun interesse a impugnare un’interdittiva, il provvedimento diventerebbe definitivo e l’ex amministratore colpito, o anche i soci o parenti menzionati nell’atto prefettizio, sarebbero costretti a subire gli effetti devastanti dell’atto senza poter reagire in alcun modo, come un marchio a fuoco indelebile.
In buona sostanza, una Pubblica Amministrazione può “demolire” un’impresa e, conseguentemente, diverse vite umane con un provvedimento che risulterà del tutto insindacabile in sede giurisdizionale. E nessuno mai potrà dirci se quel provvedimento fosse, o meno, illegittimo o se fosse giusto o sbagliato.
Ma valga anche un altro esempio. Capita spesso che, in attesa della decisione giudiziale, le imprese colpite da interdittiva, costrette alla paralisi totale, falliscano. Non è chiaro quali siano gli effetti della portata dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato sulle domande risarcitorie, ma non sembra potersi escludere che, in questo caso, l’amministratore o i soci dell’azienda fallita non potranno neppure agire per il ristoro degli incommensurabili danni patiti.
Il cortocircuito che ne deriva è pericolosissimo e pone a rischio le fondamenta del nostro Stato di Diritto. E allora, la coerente interpretazione fornita da Palazzo Spada non fa altro che dimostrare che il problema sta proprio nella normativa: se le interdittive hanno assunto i contorni delineati dal Consiglio di Stato, è perché l’istituto lo consente.
La conclusione, a questo punto, non può che essere una e una soltanto: diviene impellente, oggi più che mai, una proposta di riforma dell’istituto, che elimini simili inaccettabili storture e che trasformi l’istituto da potenziale strumento di “inquisizione medievale” ad autentico presidio di legalità.