IL SOGNO DI SHAHZADI, INFRANTO SU UN PATIBOLO AD ABU DHABI

Shahjadi Sabbeer Khan

15 Marzo 2025 :

Stefano Caliciuri su l’Unità del 15 marzo 2025

Shahzadi Khan aveva un sogno, come tanti altri, che era quello di una vita migliore. Cresciuta a Banda, in Uttar Pradesh, India, con il volto segnato sin da bambina da cicatrici, aveva sempre desiderato un futuro in cui quelle cicatrici potessero essere rimosse. Quando un uomo di nome Uzair, originario di Agra, le parlò della possibilità di lavorare negli Emirati Arabi Uniti e di poter forse risolvere il suo problema estetico, le sembrò un’opportunità impossibile da rifiutare.
Nel dicembre del 2021, partì per Abu Dhabi, portando con sé non solo la speranza di una vita migliore, ma anche un sogno di rinascita.
Tuttavia, la sua storia non avrebbe avuto il lieto fine che aveva immaginato. Arrivata negli Emirati, iniziò a lavorare come tata per un neonato. Il piccolo, appena quattro mesi, era stato affidato alle sue cure con la fiducia che una donna come Shahzadi, lontana da casa, potesse portare amore a un bambino bisognoso di attenzione. Ma il 7 dicembre 2022, qualcosa di tragico accadde: il bambino morì dopo aver ricevuto le vaccinazioni di routine. La causa della morte rimase un mistero ma secondo alcuni testimoni la famiglia del piccolo si rifiutò di procedere con un’autopsia, firmando una rinuncia che avrebbe evitato ulteriori indagini.
La situazione si complicò quando, nel febbraio del 2023, un video venne diffuso pubblicamente, mostrando Shahzadi che confessava di essere responsabile della morte del bambino. Ma quella confessione, come più volte sostenuto dalla sua famiglia, era il frutto di torture e intimidazioni. Shahzadi avrebbe rivelato che l’ammissione di colpa le era stata estorta dal suo datore di lavoro. Nonostante le proteste della famiglia, che aveva denunciato la violenza psicologica e fisica che la donna aveva subito, e nonostante l’impossibilità di una vera e propria inchiesta sulla morte del bambino, il processo continuò. Il 10 febbraio 2023, Shahzadi fu arrestata. L’11 luglio dello stesso anno condannata a morte, con il verdetto successivamente confermato in appello il 28 febbraio 2024.
Nel frattempo, il padre della donna, Shabbir Khan, cercava disperatamente aiuto, sostenendo che l’ambasciata indiana non avesse fatto abbastanza per la sua famiglia e accusando il legale di aver spinto la figlia a confessare un crimine che non aveva commesso. Quando Shahzadi lo ha chiamato al telefono per l’ultima volta lo scorso 14 febbraio parlando della sua imminente esecuzione, la sua voce tremante non fece che alimentare il dolore di un padre impotente.
Come estremo tentativo ha provato anche a chiedere intercessione al Ministero degli esteri indiano, ma, anche in questo caso le risposte sono arrivate tardive e insoddisfacenti. D’altra parte, anche in India la pena di morte è parte del sistema. Sebbene il paese abbia ridotto significativamente il numero delle esecuzioni, grazie anche alla Corte Suprema che ha stabilito che la pena capitale può essere eseguita solo nel più raro dei casi rari, le condanne a morte rimangono una drammatica realtà che fa riflettere sul valore della giustizia in un sistema che, spesso, lascia poco spazio al recupero e alla speranza e ne lascia molto e tragicamente agli errori giudiziari.
A nulla sono valse le sue richieste di clemenza, né quelle di altre persone che cercavano di evitare una morte ingiusta.
Il 15 febbraio 2024, Shahzadi Khan è stata impiccata. Il corpo è stato restituito alla famiglia solo il 5 marzo 2024, dopo tre settimane di attesa e sofferenza.
La pena di morte negli Emirati Arabi Uniti continua a essere un tema controverso. La condanna capitale viene applicata con durezza, soprattutto verso i lavoratori immigrati che spesso non godono dei diritti legali e della protezione che sarebbe loro dovuta.
Quello di Shahzadi non è un caso isolato. Due settimane dopo la sua esecuzione, altri due indiani, Muhammed Rinash Arangilottu e Muraleedharan Perumthatta Valappil, entrambi originari del Kerala, sono stati giustiziati per omicidi commessi in circostanze che, anche nel loro caso, sembrano essere segnate da situazioni di grande incertezza legale e da ampie difficoltà economiche e sociali.
“Questa esecuzione non è giustizia”, ha dichiarato Ali Mohammad, il legale di Shahzadi Khan, definendo il tutto come “un omicidio extragiudiziale mascherato da esecuzione giudiziaria”.
Shahzadi, una donna che cercava solo una vita migliore, ha pagato con la propria esistenza per un destino che forse non meritava. E il suo caso rimarrà, per sempre, un simbolo delle ombre in cui la pena di morte può gettare anche i più innocenti.

 

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