12 Dicembre 2021 :
Diego Mazzola su Il Riformista del 10 dicembre 2021
Oggi, finalmente, si comincia a sentir dire che il primo e indispensabile passo per portare l’umanità fuori dalla società carceraria sia la riduzione del diritto penale fino al “minimo” della sua sfera di intervento, delle sue previsioni punitive. Questo primo passo è essenziale per ridare credibilità al Sistema Penale nel suo insieme e, quindi, consentire l’abolizione dell’istituto che più di ogni altro lo delegittima, ovvero il carcere, per come esso è e per come non può non essere. Una volta che si è compreso la mancanza di senso e la immoralità della punizione, forse, è possibile fare qualche passo avanti, non nella conferma della “certezza della pena” ma in quella della certezza del “reinserimento sociale” di chi ha compiuto un reato.
È in gioco la smania di punire, anche se non si ha la benché minima idea di che cosa sia un carcere e di quanto ci si debba vergognare per quella istituzione e, soprattutto, di quanto indispensabile alla “convivenza civile” sia il precetto evangelico – non “laicamente” condiviso – del “non giudicare”. A maggior ragione, quando è ormai chiara la supponenza di chi giudica in un contesto in cui il Diritto è nelle mani di chi lo amministra in base a leggi scritte da Parlamenti che troppo spesso rappresentano gli interessi di una classe politica o di un gruppo di potere, non certo gli interessi di tutti.
Non dimentichiamo Michel Foucault e il suo “Sorvegliare e punire”, “saggio di formazione” per molti abolizionisti che spiega la nascita della prigione, da dove viene – e dove dovrà andare a finire – «questa strana pratica, e la singolare pretesa di rinchiudere per correggere, avanzata dai codici moderni». Non dimentichiamo gli insegnamenti di Louk Hulsman, il consigliere del ministero della giustizia olandese autore di “Pene perdute” che ha fondato la scuola nordeuropea dell’abolizionismo del sistema penale insieme ai norvegesi Nils Christie e Thomas Mathiesen, che ci ha lasciato pochi mesi fa. Non dimentichiamo i nostri Filippo Turati e Altiero Spinelli e, oggi, Gherardo Colombo, solo per farla breve.
Esiste una grande storia dell’Abolizionismo nostrano e internazionale. Oggi si viene a sapere di Angela Davis e Ruth Gilmore, capaci di contrastare legalmente la costruzione di nuove carceri negli Stati Uniti o dell’impegno ultradecennale dell’International Conference on Penal Abolition o di ciò che si è fatto in Portogallo e nella vicina Svizzera, Paesi che – a seguito della somministrazione gratuita e sotto rigido controllo medico di cocaina ed eroina, con la ricercata offerta di lavoro a quelli che nel nostro Paese continuano a essere chiamati “tossicodipendenti” – hanno cominciato col chiudere alcuni istituti penitenziari.
E poi: di che si tratta quando si sente parlare di “rieducazione del condannato” senza nulla concedere alla libertà di coscienza in ciò che si crede sia lo Stato di Diritto? Davvero si è convinti che un terrorista islamico possa “redimersi” e accettare di essere “rieducato” per ciò che non crede affatto essere un peccato? O che un sociopatico violento possa comprendere da solo, nel silenzio di una cella, l’orrore dei suoi omicidi? Purtroppo nelle carceri spesso ci “scappa il morto”, per malattie o maltrattamenti, per cosiddette “cause naturali” o tramite suicidio. Così come incalcolabili sono le condanne accertate (e non) di coloro che pure non avevano compiuto “i fatti loro ascritti”. Forse dovremmo cominciare a comprendere che con l’art. 27 della nostra Costituzione sulla Rieducazione del Condannato, si è permessa l’introduzione nell’Ordinamento della violenza, del cavallo di Troia del codice Rocco, sottoscritto da Mussolini e dal re d’Italia di allora, e della mancanza di responsabilità dello Stato nell’amministrare giustizia e comminare pene.
Pena è solo ciò che si prova di fronte ad animale o essere umano per l’appunto sofferenti, ma se viene procurata a chiunque è solo “tortura”. Organizzare la richiesta di Giustizia sulla pena, ovvero sulla vendetta di Stato, è solo un fatto criminale. Davvero vogliamo che pedofili e assassini debbano marcire in carcere? Eppure pedofili e psicopatici violenti sono persone malate e si sa che il carcere non è un luogo di cura ma, appunto, di pena, che procura dolore, genera malattia. Il carcere e la (in)giustizia penale sono figlie della stessa cultura violenta e vendicativa che si dice di voler combattere.
Una cultura di prevenzione nonviolenta è possibile. Ne parleremo nel Congresso di Nessuno tocchi Caino il 17 e 18 dicembre, nel carcere di Opera. Vogliamo cominciare a parlare di come introdurre mattoni di nonviolenza nella costruzione del Patto Sociale? Tra i primi Abolizionisti contestatori del modello retributivo e della visione “carcero-centrica” troviamo anche il Cardinal Martini, per il quale «Qualsiasi pena [afflittiva] ha la distretta della pena di morte e della tortura, e che già il pensiero di affliggere un altro essere umano è intollerabile e perverso». E troviamo anche Thomas Mathiesen e Donald Clemmer, secondo i quali «la ‘prigionizzazione’ è l’opposto stesso della riabilitazione, ed è l’ostacolo maggiore sulla strada del reinserimento».