15 Marzo 2025 :
Cesare Burdese su l’Unità del 15 marzo 2025
Nei giorni a cavallo di febbraio e marzo, con una delegazione di Nessuno tocchi Caino e delle Camere penali, ho visitato l’Istituto Penale per i Minorenni di Treviso, le carceri di Cuneo, di Fossano, di Saluzzo, di Asti, di Alba e di Vercelli. In viaggio nell’universo carcerario da quarant’anni, ogni volta rimango sconcertato per la miseria materiale dei luoghi e i limiti dell’esecuzione penale in atto. Constato realtà lontane dalla retorica del carcere che riabilita.
Per rimediare, le azioni possibili sono, la più immediata, intraprendere la via giuridica del nostro stato di diritto e, a lungo termine, la creazione di un fronte culturale architettonico, al momento inesistente.
Le nostre carceri sono orfane dell’architettura come mezzo per umanizzare la pena.
La mia attenzione è rivolta all’ambiente fisico delle carceri, nel suo rapporto coi bisogni dell’utenza. Le ultime che ho visitato presentano, chi più chi meno, le criticità di tutte le carceri che, per come sono costruite e gestite, mortificano i sensi negando dignità e tradiscono il monito costituzionale.
Sovraffollamento, condizioni igienico sanitarie deprecabili, disumanità dei luoghi di vita e di lavoro, criticità nel servizio sanitario, mancanza di opportunità formative e lavorative, sottodimensionamento e impreparazione dell’organico, latitanza della Magistratura di sorveglianza…
Nell’IPM di Treviso, dove l’ozio forzato rischia di diventare la regola, lo spazio per una esecuzione penale legale non c’è: mancano aule scolastiche, laboratori, spazi per coltivare gli affetti esterni, aree all’aperto per il gioco e l’attività fisica.
Le “camere di pernottamento” sono inadeguate a ospitare i 25 ragazzi presenti, sicché alcuni dormono su giacigli improvvisati con materassi sul pavimento; i servizi igienici sono anguste cabine.
Si confermano: ambienti fatiscenti e illuminati con lampade al neon per mancanza di luce naturale, visuali verso l’esterno impedite, assenza totale di verde.
Pur escludendolo la norma, i detenuti “giovani adulti” non sono separati dai minorenni, quelli in attesa di giudizio dai definitivi.
È questo un modello di esecuzione penale costituzionale e utile?
Quelle piemontesi, a eccezione di Fossano, sono carceri che sorgono in aperta campagna, risalenti agli anni ‘80 del ‘900 e concepite con soluzioni standard per garantire la massima sicurezza, secondo logiche di contenimento e incapacitazione. L’architetto Sergio Lenci, innovatore nel recente passato dell’architettura carceraria, descrisse quelle soluzioni “corrispondenti a uno Stato dispotico e assolutista, precostituzionale, indifferente ai problemi della detenzione e preoccupato solo della custodia di un detenuto reso al massimo grado inerme”.
La quotidianità detentiva si consuma principalmente in celle e corridoi desolati e desolanti, quasi sempre fatiscenti. Gli spazi al chiuso e all’aperto sono fortemente compartimentati, ai detenuti è impedita ogni possibilità di movimento autonomo, i cortili di passeggio sono simili a recinti per cani o a scatoloni di cemento, alcuni reparti sono bui e maleodoranti scantinati.
Solo la Casa di Reclusione di Fossano, dove la popolazione detenuta è “selezionata all’ingresso”, presenta aspetti architettonici più accettabili. È collocata in un antico convento nel centro storico. La cosa ha consentito di realizzare una bottega interna con accesso direttamente dalla via, aperta al pubblico e gestita dai detenuti, per la vendita dei prodotti carcerari. Tale realtà è la rappresentazione plastica del “rapporto del carcere con la città”, cardine di una azione penale mirata al reinserimento sociale dei detenuti. Alcuni alberi nei cortili interni, la vista di una antica torre campanaria e i colori caldi delle pareti degli edifici e delle coperture in cotto, consolano detenuti e detenenti.
Nella Casa di Reclusione di Saluzzo, sovrasta la miseria architettonica degli spazi detentivi la sala studio della sezione che ospita il Polo universitario, luminosa e spaziosa, a testimonianza che il riscatto anche architettonico del carcere può avvenire aprendolo alla cultura.
Nella Casa di lavoro di Alba il paradosso è che solo una minima percentuale dei 44 detenuti lavora.
Sulla base di tutto ciò, rimango perplesso per come il Ministro Nordio intenda fronteggiare il cronico sovraffollamento carcerario. Tralascio l’ipotesi irragionevole e irrealizzabile di rifunzionalizzare a carceri le caserme dismesse. Mi inquieta, perché più fattibile, la soluzione di stipare nelle carceri esistenti, ovunque ci sia spazio libero, decine di prefabbricati, per creare 7.000 nuovi posti detentivi. In questo modo, si congestioneranno ulteriormente carceri già al collasso per la perversa logica della detenzione sociale da tempo in atto, trasformandole in bolge dantesche dove, separati da barriere fisiche, detenuti e detenenti si fronteggeranno senza alcun costrutto né speranza.