FORCA E PROIBIZIONISMO: UN’ALLEANZA DA ROMPERE

03 Aprile 2022 :

Marco Perduca su Il Riformista del 1° aprile 2022

Nel diritto internazionale è ammessa un’eccezione al diritto alla vita per quei Paesi che ancora non hanno abolito la pena di morte, ma i reati devono essere “gravi”, cioè “con conseguenze letali”. Le esecuzioni per droga non sarebbero quindi ammesse. Eppure, l’ideologia proibizionista continua a dare il suo contributo alla pratica della pena di morte nel mondo. L’ultima esecuzione è avvenuta all’alba di mercoledì scorso a Singapore dove Abdul Kahar Othman, un uomo di 68 anni nel braccio della morte per traffico di droga, è stato impiccato nella prima esecuzione nella città-stato in oltre due anni.
Secondo l’XI rapporto di Harm Reduction International, ben 35 Paesi continuano a mantenere la pena di morte per uso e traffico di droghe. Al netto anche della diminuzione dei processi a causa delle limitazioni imposte dalle misure anti-pandemia, nel 2020 si era registrata un’inversione di tendenza rispetto al primo ventennio del terzo millennio. Nessuna esecuzione a Singapore per la prima volta dal 2013. Una moratoria in Arabia Saudita dichiarata da re Salman all’inizio del 2020.
Invece, nel 2021, sebbene non siano state segnalate nuove esecuzioni per reati di droga in Arabia Saudita e Singapore, in Iran è stato registrato un improvviso aumento. Il rapporto, che si basa solo su informazioni raccolte pubblicamente, nel 2021 ha registrato notizie su almeno 131 esecuzioni a livello globale, un aumento del 336% rispetto al 2020. “Almeno 131” perché il dato è relativo al solo Iran, l’unico Paese dove le esecuzioni sono relativamente pubbliche perché ritenute “educative”. Si confermano esecuzioni in Cina, ma il rapporto non fornisce numeri certi poiché le informazioni sulla pena di morte sono classificate come segreto di stato. Per lo stesso motivo, non si può escludere che ve ne siano state anche in Corea del Nord e Vietnam, altri due Paesi particolarmente proibizionisti e senza libera stampa.
Il rapporto conferma che il numero dei Paesi che ricorrono attivamente alla pena capitale come strumento centrale del “controllo delle droghe” è in diminuzione ma che, al contempo, resta caratterizzato da opacità e segretezza, se non addirittura censura circa le reali dimensioni del fenomeno.
Trasparenza e monitoraggio restano quindi elementi chiave per gli attori istituzionali e della società civile che lavorano e si battono per l’abolizione della pena di morte, non solo per droga. Anche il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, in una risoluzione dell’ottobre scorso, ha sottolineato gli obblighi dei Paesi mantenitori della pena di morte relativi alla trasparenza e condivisione delle informazioni circa l’uso che ne viene fatto.
Il Consiglio ha inoltre osservato che “la discriminazione è aggravata quando la trasparenza non esiste o è insufficiente, e che una segnalazione trasparente e l’accesso alle informazioni possono esporre pratiche discriminatorie o avere un impatto nell’imposizione e nell’applicazione della pena di morte”.
Ci sono anche notizie incoraggianti, come la totale abolizione della pena di morte in Kazakistan e Sierra Leone che conferma la direzione presa dalla stragrande maggioranza degli Stati Membri dell’Onu. Purtroppo, i Paesi in cui la morte può essere inflitta come punizione per reati correlati alle droghe sembrano rimanere delle vere e proprie “roccaforti” di questa pratica. Ciò risulta particolarmente evidente se si osservano quali Stati hanno rimosso la pena di morte dalla loro legislazione negli ultimi tempi: tra il 2007, anno dell’adozione della prima risoluzione a favore di una moratoria universale delle esecuzioni capitali – campagna storica di Nessuno tocchi Caino e del Partito Radicale – e il 2021, molti Paesi hanno abolito la pena di morte ma nessuno di questi la prevedeva per reati di droga.
Gli sviluppi del 2021 confermano le conclusioni del rapporto precedente sul calo “eccezionale” delle esecuzioni per droga. Che i progressi sono fragili e spesso temporanei se non vengono sostenuti da riforme globali a lungo termine e che le esecuzioni sono solo la “punta dell’iceberg”, l’elemento più visibile di un più ampio sistema punitivo che dovrebbe essere riformato nella sua interezza.

 

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