01 Maggio 2021 :
Matteo Angioli su Il Riformista del 30 aprile 2021
Il 20 aprile, dopo un processo durato tre settimane, la giuria del tribunale blindato di Minneapolis ha giudicato colpevole l’ex agente di polizia Derek Chauvin, bianco, per l’omicidio di George Floyd, nero, per asfissia indotta da una pressione sul collo per 9 minuti e 29 secondi. L’imputato è stato ritenuto responsabile di tutti e tre i capi d’accusa formulati: omicidio di secondo e terzo grado e omicidio colposo. L’effetto cumulativo risulterebbe in 75 anni di reclusione. Siccome le tre condanne sono legate a una singola azione e Chauvin non ha precedenti, il codice penale del Minnesota stabilisce che è l’accusa più grave ad essere presa in considerazione. Nel caso, l’omicidio di secondo grado, che prevede una pena massima di 40 anni. Bisognerà comunque attendere il 16 giugno per conoscere la sentenza finale e le motivazioni.
Mentre seguivo il processo mi è rimbombata in testa una parola: ragionevole. L’ha pronunciata l’avvocato difensore dicendo che “Chauvin ha agito come avrebbe fatto un qualsiasi agente ragionevole”. Magari fino al 1964, quando sotto il regime segregazionista statunitense non era solo “ragionevole” ma perfino legale pestare e calpestare gli afroamericani e i loro diritti fondamentali. Non basta: lo stesso avvocato ha evidenziato che la vittima soffriva di patologie pregresse, tra cui ipertensione e cuore ingrossato. Dall’altra parte, il procuratore ha detto: “la difesa ha sostenuto che Floyd è morto perché aveva il cuore troppo grande, ma in realtà è morto perché il cuore di Chauvin è troppo piccolo.” Troppo piccolo, forse. Militarizzato, sicuramente. Perché in ciò consiste buona parte del problema: la militarizzazione crescente delle forze dell’ordine che, unita ad un ampio uso del diritto penale, invera il pericolo denunciato dal Presidente Eisenhower nel
1961, ovvero la perdita delle libertà e dei processi democratici provocata dai prevalenti interessi del complesso militare industriale (e congressuale).
Secondo il Security Policy Reform Institute, sono almeno 336.863 le attrezzature militari trasferite alle agenzie di polizia in tutti gli Stati Uniti mediante il “Programma 1033”, istituito nel 1997. Il prof. Kraska, della Eastern Kentuky University, ha calcolato che tra il 2006 e il 2014 il Dipartimento di Giustizia ha trasferito all’80% delle agenzie di law enforcement locali e statali 600 veicoli antimine, 79.288 fucili automatici, 205 fucili lanciagranate, 11.959 baionette, 50 aerei, 422 elicotteri e uniformi tattiche per un valore di 3.6 milioni di dollari. Provenienza: il ritiro dell’esercito dai teatri di guerra in Medio Oriente.
Si tratta di armi ed equipaggiamenti che richiedono tecniche di impiego e addestramenti specifici. Si formano agenti di polizia con una mentalità da scontro, da guerra, da guerriglia urbana. Il manifestante non è più un cittadino, ma un nemico. Il poliziotto non è più una figura che ispira protezione e fiducia. Il ginocchio non è più un arto, è un’arma.
Nonostante la politica di disimpegno militare perseguita da Trump nello scenario mondiale, il complesso militare industriale è ben vivo. Lo è grazie ad una guerra sempre meno occulta che gli Stati Uniti stanno importando e che rende quasi impossibile riformare un sistema che produce i Chauvin.
Invertire la rotta è complicatissimo ma non impossibile. Due misure potrebbero essere attuate in maniera relativamente rapida, dati i numeri in Congresso: la prima è la chiusura del “Programma 1033” che consente alle forze dell'ordine statali e locali di acquisire, sostenendo solo i costi di spedizione, armi e attrezzature di tipo militare in eccesso. La seconda è il ritorno al dialogo e al dibattito nelle istituzioni e quindi nel Paese. Biden dovrebbe ridurre il ricorso agli ordini esecutivi e
rinunciare a governare per decreto. Significa non aggirare il Parlamento, soprattutto quando i temi potrebbero trovare un consenso bipartisan.
Finora però, in termini di ordini presidenziali emessi, Biden è stato il più attivo di tutti i presidenti dal 1945. Nel periodo dal 20 gennaio al 25 aprile del loro primo mandato, gli ordini esecutivi di Biden, Trump, Obama e Bush sono, in ordine cronologico: Biden 40, Trump 23, Obama 19, Bush 11. Il totale è: Trump 220, Obama 276, Bush 291. Anziché agire unilateralmente, Biden dovrebbe includere il Congresso senza temere di implicare un organo istituzionale talvolta troppo lento, se non incapace, di legiferare. È spossante ma è ciò che distingue la democrazia dagli “efficienti” regimi autoritari.